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Il calendario e il tempo. Riflessioni su un lunario d’artista /2

di CESARE SARTORI

Il calendario, tutti i calendari, anche quello d’artista, si occupa del tempo e «il tempo è uno dei grandi misteri dell’umanità. Nel corso della storia, gli esseri umani si sono costantemente interrogati sulla profonda, ma imperscrutabile natura del tempo. È un argomento che ha affascinato, inquietato e intrigato poeti, narratori e filosofi di ogni generazione. […] Tutti ci rendiamo conto dello scorrere irreversibile del tempo, che sembra dominare la nostra esistenza, nella quale il passato è immodificabile – factum infectum fieri non potest, neque Deus – e il futuro è aperto. Possiamo desiderare di far girare all’indietro le lancette dell’orologio, di annullare gli errori che abbiamo commesso o di rivivere un istante meraviglioso del passato. Ma, purtroppo, il senso comune ci dice che non è possibile: il tempo, come la marea, non aspetta nessuno. Il tempo non può scorrere a ritroso» (Alvaro Innocenti, Guerre del tempo nel cielo di Giuda, Firenze 2002).
O è vero il contrario? Il tempo è una freccia (vedi, fra le tante, la tesi dell’astrofisico Arthur Eddington, 1927) o un cerchio? Reversibile o irreversibile? «È spiacevole – scrive ancora Innocenti – e inquietante dover constatare che la concezione del tempo proprio del senso comune trova scarso credito in molte teorie scientifiche, nelle quali la direzione del tempo non ha molta importanza. La meccanica newtoniana, la relatività einsteiniana e la meccanica quantistica di Heisenberg e Schrödinger, che costituiscono il grande edificio della scienza moderna, funzionerebbero altrettanto bene se il tempo scorresse all’indietro. […] L’unidirezionalità del tempo sembra presentarsi come una semplice illusione mentale.
La credenza in un mondo deterministico, nel quale il tempo non ha direzione e il passato e il futuro sono predeterminati, ha svolto un ruolo di grande importanza nello sviluppo della fisica. La sua forza è dimostrata, ricorda Innocenti, da una notevole affermazione che Einstein fece quando gli giunse la notizia della morte del suo carissimo amico e confidente Michele Angelo Besso (1873-1955; è stato un ingegnere e matematico svizzero di origine ebraico-italiana; lavorò nello stesso ufficio brevetti di Albert Einstein e ne divenne amico intimo, confidente, e sostenitore). In una lettera del 21 marzo 1955 – il padre della relatività sarebbe morto di lì a un mese –, Einstein si aggrappò a questa incrollabile fede nell’«atemporalità» delle leggi fisiche per consolare i famigliari di Besso. La morte, scrisse, non era qualcosa di irrevocabile: “Per noi fisici, convinti, la distinzione tra passato, presente e futuro non è altro che un’illusione, anche se tenace”».
Ma l’idea della direzionalità del tempo non è sempre esistita. «Le maree, i solstizi, le stagioni e i movimenti ciclici dei corpi celesti – è sempre Innocenti che scrive – indussero molte società primitive a considerare il tempo come un fenomeno essenzialmente ciclico. Quegli uomini pensavano che, poiché il tempo era inseparabile dal moto circolare dei cieli, avesse esso stesso natura circolare. Il giorno segue la notte, la luna nuova succede a quella vecchia, l’estate succede all’inverno: perché anche la storia non dovrebbe procedere allo stesso modo? I Maya dell’America Centrale credevano che la storia si ripetesse ogni 260 anni, un periodo di tempo da loro chiamato il lamat, o elemento fondamentale, del loro calendario. Credevano anche nelle catastrofi cicliche: quando, nel 1698, un gruppo di invasori spagnoli sbarcò in quei territori, i membri di una tribù, gli Itza, fuggirono perché credevano che il ciclo temporale si fosse interamente compiuto e fosse arrivata l’ora del disastro. Avevano ragione, ma non per predizione o per mera coincidenza: gli spagnoli sapevano che cosa sarebbe successo, perché i loro missionari avevano appreso, 80 anni prima, che i Maya credevano nella ciclicità del tempo.

«La struttura ciclica del tempo era un luogo comune nel pensiero cosmologicvo greco. Aristotele osservò nella sua Fisica: “Le vicende umane sono un circolo; e ciò vale anche per le altre cose che abbiano movimento naturale e siano soggette al nascere e al perire. E ciò si dice perché tutte queste cose sono discriminate dal tempo e perché assumono una fine e un principio, come se fossero lungo una circonferenza”. Gli stoici credevano che ogni qual volta i pianeti fossero tornati ad occupare le stesse posizioni relative che avevano occupato all’inizio dei tempi, il mondo si sarebbe rinnovato.
Nemesio, vescovo di Emesa nel IV secolo d.C., scriveva: “Socrate, Platone e tutti i singoli individui rivivranno, insieme ai loro amici e ai loro concittadini. Rifaranno le stesse esperienze e svolgeranno le stesse attività. Ogni città, ogni villaggio, ogni campo rinascerà tale e quale. E questa rinascita dell’universo non avrà luogo una volta sola, ma più e più volte, senza fine, per tutta l’eternità”. Era come se gli eventi della storia fossero connessi a una grande ruota celeste. Quest’idea dell’eterno ritorno è riapparsa in forma matematica moderna nel cosiddetto teorema della ricorrenza di Poincaré, uno dei più grandi matematici del mondo, che scrisse le sue opere tra la fine dell’800 e i primi anni del ‘900.
«La freccia del tempo suscitava una grande paura o un vero e proprio terrore perché implicava l’instabilità delle cose, il flusso, il cambiamento. Segnalava, inoltre, non la rinascita e il rinnovamento, ma la fine del mondo. Nella sua opera sulla freccia del tempo e sui cicli temporali titolata Il mito dell’eterno ritorno, l’antropologo e storico delle religioni romeno Mircea Eliade ha sostenuto che, nella vita del genere umano, i popoli, per consolarsi, si sono aggrappati per lo più all’idea del ciclo temporale, nel quale il passato è futuro, non esiste una ‘vera’ storia e l’umanità si dispone a rinascere e rigenerarsi. Scrive significativamente Eliade: “La vita dell’uomo arcaico […], anche se si svolge nel tempo, non ne porta il peso, non ne registra l’irreversibilità, in altri termini non tiene affatto conto di ciò che è propriamente caratteristico e decisivo nella coscienza del tempo”.
«Fu la tradizione giudaico-cristiana a introdurre, una volta per sempre, un tempo “lineare” (irreversibile) nella cultura occidentale. “Il pensiero cristiano – ha scritto Eliade – tendeva a superare definitivamente i vecchi temi dell’eterna ripetizione”. Attraverso la credenza cristiana nella nascita, crocifissione e morte di Gesù Cristo come eventi unici e irripetibili, la civiltà occidentale giunse a considerare il tempo come un percorso lineare che si svolge tra un passato e un futuro. Prima dell’avvento del cristianesimo soltanto gli ebrei e i persiani seguaci di Zoroastro privilegiavano questa visione del tempo come qualcosa che procede in avanti. L’irreversibilità del tempo ebbe una profonda influenza sul pensiero occidentale. Essa preparò la mente umana all’idea di progresso e, più tardi, al concetto della “profondità del tempo”, quando i geologi e gli antropologi scoprirono che l’evoluzione della specie umana rappresenta solo un brevissimo e tardivo episodio nella storia del pianeta Terra. Aprì inoltre la strada alla teoria darwiniana dell’evoluzione, alla comprensione del legame che, attraverso il tempo, ci lega e ci unisce a creature più primitive. In breve, l’emergere dell’idea della linearità del tempo e l’evoluzione intellettuale che essa ha comportato sono state alla base della scienza moderna e delle sue promesse di miglioramento della vita sulla Terra».
Ma che il tempo sia una freccia o un cerchio, che cosa cambia per me, infinitesimo granello nel mondo eppur dotato di cervello e di cuore e quindi pensante? La mia vita quotidiana in che cosa ne sarebbe influenzata dall’adesione all’una o all’altra teoria/visione? Avrò più successo, otterrò più facilmente l’amore che bramo, guarirò sicuramente dalla malattia se aderisco all’uno o all’altro partito? Da che parte dobbiamo, possiamo, vogliamo stare? Con la legge o con l’evento, con l’ordine o con il caos, con il prevedibile o con l’imprevisto? Con Parmenide o con Proust? Non lo sappiamo con certezza, forse stiamo un po’ di qua e un po’ di là.
Una cosa però sappiamo molto bene e cioè che il tempo, di cui il calendario si occupa, oltre che costituire uno dei grandi misteri della scienza, è anche il tema e la trama essenziale della vita, è la divinità segreta dei nostri giorni e delle nostre notti. Noi adulti – parlo di adulti perché soltanto per i bambini il tempo non esiste e ogni istante è eterno -, noi adulti siamo completamente fatti di tempo. Il corso irreversibile – eh, sì! proprio così: irreversibile – del tempo è la fiumana che rende precario, travolge e trasfigura ogni legame, ogni volto, ogni destino.
Eppure, pensateci: il calendario non ci indica soltanto il futuro; anzi del futuro riesce a dirci e a darci soltanto una mera griglia numerica, una cornice vuota di contenuti. Mentre molto, moltissimo può dirci del passato: ricordarci l’irrecuperabile magia dell’irrecuperabile adolescenza e prima giovinezza… un fiume, un volto, degli alberi, un incontro, un amore, una strada polverosa di un pomeriggio d’estate nell’assordante frinire delle cicale («Dimmi Giorgia – implora Matteo rivolgendosi alla giovane malata mentale ritrovata 20 anni dopo in quel memorabile film di Marco Tullio Giordana che è La meglio gioventù, una pellicola che è la nostra autobiografia, dico noi che siamo nati tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50 del ’900 – , dimmi com’eri quell’estate e io, io com’ero?»). Oppure il calendario può ricordarci che quel 29 settembre di tanti anni fa – maledizione, troppi anni fa! – eravamo anche noi seduti in quel bar ma non pensavamo a lei…
«Ho già i miei ricordi, posso sopravvivere», dice Ruben Olivier, il bibliotecario ultrasessantenne (eccomi!) in pensione protagonista dello splendido romanzo Desiderio del sudafricano André Brink (1935-2015), alla giovane Tessa entrata come un turbine devastante nella sua vita abitudinaria e regolata. La memoria è l’unica cosa, di cui noi esseri umani disponiamo, capace di resistere al tempo, capace di opporsi con qualche speranza di successo all’inesorabile esaurirsi della vita. E l’uomo può difendersi da questo pensiero insopportabile della fine soltanto con il ricordo, sia pure incompleto sia pure trasparente sia pure poco carnale, non certo con il pensiero del futuro (ma quale futuro?), un buco vuoto, nero, pauroso e sconosciuto spalancato davanti a lui.
E nonostante che ognuno di noi si accorga ben presto a sue spese che il passato non è unico, non è soltanto quello là e basta, nonostante che ognuno di noi sappia che dal passato non ti salvi [«Il passato è un luogo pericoloso», sostiene John Rebus, il detective investigatore della polizia di Edimburgo, creato da Ina Rankin nel suo “L’ombra dei peccatori” (Saints of the Shadow Bible), Longanesi, 2014, p. 132], perché il passato lavora all’indietro trasformando, deformando, divorando, amalgamando non soltanto ciò che è stato ma perfino il nostro futuro, la memoria (insieme al sesso) è probabilmente la forma che l’eternità può assumere nel nostro incessante transito terreno. Come scrisse Ardengo Soffici a Hélene D’Oettingen (29 luglio 1949): «Avete anche voi un po’ la religione del ricordo. Non tutto è stato vano allora. Vi ricordate, noi eravamo di quelli che sapevamo riconoscere il profumo delle rose».
È più fedele al suo passato o alla speranza di ciò che il futuro le riserverà, ha chiesto Antonio Monda al teologo e biblista Paolo De Benedetti (Asti, 1927)? «Sono fedelissimo ai ricordi, che pure tendono a svanire, ed alle persone che non ci sono più. Alle quali sono appartenuto come loro a me». Quantunque noi si vada cambiando con gli anni e anche la nostra pelle e le nostre rughe diventino testimonianza di questo passaggio, c’è qualcosa in noi, laggiù in fondo, in regioni molto oscure di noi, aggrappato con le unghie e con i denti al passato, all’infanzia, all’adolescenza e alla prima giovinezza, alla terra e ai sogni, che pare resistere a questo tragico e inevitabile processo: la memoria (e quindi la nostalgia: νόστος “ritorno”, e άλγος, “dolore”!), senza la quale l’uomo è solo un’esile, incerta, leggerissima foglia trascinata dal furioso e insensato vento del tempo.
E allora che possiamo fare? Dove trovare risposte? Dove trovare conforto e consolazione, come esorcizzare questo calendario che ci parla del domani? Forse possiamo trovare aiuto in Matteo 6, 34 (“Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno”). Ogni giorno ha la sua pena. Non mettetevi pena e non siate inquieti per il domani perché anche il domani avrà le sue inquietudini…
O dovremo invece credere al lucido disincanto del cantastorie secondo il quale «il tempo prende / il tempo dà / noi corriamo sempre in una direzione / ma qual sia e che senso abbia chi lo sa? / Restano i sogni senza tempo / le impressioni di un momento / le luci nel buio / di case intraviste da un treno; / siamo qualcosa che non resta / frasi vuote nella testa / e il cuore di simboli pieno»?
O dovremo, più semplicemente abbandonarci a occhi chiusi (e a cuore aperto) alla musica e lasciarci cullare da una ballata?
Ma la canzone – penso a “La canzone dei dodici mesi” di Francesco Guccini – sfuma, e ci riassale l’angoscia e sentiamo che né il cantastorie né l’evangelista ci persuadono fino in fondo e ci consolano una volta per tutte. E mentre avanza a larghi, inesorabili passi l’inverno del nostro scontento ma ancora intatto è il nostro desiderio che di notte ci tiene svegli («Quei desideri che si ostinano a durare»), c’è soltanto e sempre la confusa slealtà della memoria e dovunque mai ci volgiamo, dietro le spalle o davanti a noi, i nostri occhi attoniti e il nostro cuore sconcertato vedono soltanto profilarsi, inesorabile, la nera schiena del tempo.

(2/2. Fine).

Louis Finson, Allegoria delle età della vita o dei quattro elementi (1611)