di Luciano Pellicani
recensione a: Sognando la rivoluzione. La sinistra italiana e le origini del ’68, Mauro Pagliai Editore, Firenze 2008, pp. 272, € 15.
“La Rivoluzione d’Ottobre, in Russia, ha soltanto rafforzato i poteri che già sotto lo zar erano gli unici: la burocrazia, la polizia e l’esercito”. Con questa lapidaria sentenza, Simone Weil iniziò la sua analisi critica di quello che è stato, per ben due secoli, il mito cardinale della esistenza storica dell’Europa: il mito della rivoluzione concepita come rovesciamento violento dell’ordine esistente e demiurgica creazione – sulle macerie della società capitalistico-borghese, corrotta e corruttrice – di un Mondo Nuovo.
Conosciamo l’anno di nascita di questo mito, potente quanto accecante: la presa della Bastiglia nel 1789. A partire da quell’evento, apparve sulla scena quella “parola magica” che la stessa Simone Weil così descrisse: ”una parola che conteneva in sé tutti i futuri possibili e che non è mai così ricca di speranza come nelle situazioni disperate; capace di compensare tutte le sofferenze, di placare tutte le inquietudini, di vendicare il passato, di rimediare alle infelicità presenti, di riassumere le possibilità dell’avvenire… una parola che aveva suscitato delle dedizioni così pure, fatto scorrere a più riprese un sangue così generoso che era quasi sacrilego porla sotto esame; tuttavia, niente impedisce che essa sa priva di senso. Solo per i preti, i martiri costituiscono delle prove”.
Alla stessa conclusione – la natura affatto mitologica della rivoluzione – è giunto Danilo Breschi. E lo ha fatto a seguito di una analisi minuziosa delle tante versioni che lo spirito rivoluzionario ha avuto nel nostro Paese. Tutte comunque radicalmente ostili al così detto “Stato borghese” da radere al suolo in nome della “democrazia proletaria”, che altro non era che la spietata dittatura totalitaria teorizzata da Lenin e pienamente realizzata da Stalin.
Di qui l’ossessione per la “purezza rivoluzionaria” che ebbe come suo logico corollario la demonizzazione del riformismo, percepito e stigmatizzato come il “nemico interno” al Partito comunista: una sorta di malattia contagiosa che doveva essere debellata al più presto. Con il risultato che alla linea socialdemocratica fu contrapposta una linea rigorosamente marxleninista che negli anni Sessanta trovò in Adriano Sofri il suo ideologo più radicale e influente. Il quale così si esprimeva: “Lotta allo Stato borghese, coscienza che il socialismo può essere conquistato solo attraverso la lotta di classe e l’organizzazione della dittatura proletaria, e che la lotta per il potere non può non essere lotta violenta, violenza proletaria contro violenza borghese”.
Nel suo libro Breschi non si limita a documentare le varie versioni che l’ossessione rivoluzionaria ebbe negli anni immediatamente precedenti alla irruzione della Contestazione. Opportunamente sottolinea l’importanza delle mutazioni strutturali che attraversarono la società italiana cambiandone radicalmente il volto. La prima delle quali fu il fenomeno della “emigrazione interna” che produsse lo sradicamento di decine di migliaia di lavoratori. Il che offrì agli “alchimisti della Rivoluzione” un vasto uditorio di giovani colmi di aspettative deluse e di risentimenti nei confronti di un sistema nel quale vivevano come alieni.
Accadde così che, mentre era in pieno svolgimento il così detto “boom”, l’assetto contadino fu soppiantato dall’assetto industriale. E questo sviluppo economico, impetuoso e caotico, non fu accompagnato da quegli investimenti sociali (case, assistenza medica, scuole, ecc.) che il centro-sinistra avrebbe dovuto fare, ma che non fece. Col risulto che la cultura politica riformista non fu altro che una retorica piena di promesse e vuota di contenuti.
Contemporaneamente, si verificò il passaggio dalla università di élite alla università di massa con la conseguente formazione di un vasto “proletariato intellettuale”. Accadde così che nelle nostre università fu innescata una sorta di bomba ad orologeria, pronta ad esplodere. E l’esplosione, in effetti, ci fu. E assunse le forme del Sessantotto, durante il quale l’ideologia rivoluzionaria dilagò in ogni dove – nei partiti, nei sindacati, nelle università, nei mass-media, ecc. – con i suoi slogan e il suo furore nichilistico. Il che induce Breschi a concludere la sua investigazione sulle origini di quello che si può definire l’estate di San Martino dello spirito rivoluzionario con le seguenti considerazioni, che meritano di essere riportate per intero: “se quella specie di vaso di Pandora che il Pci era stato sin dalla fine della guerra non si frantumò del tutto, certo subì forti incrinature e con il ’68 si aprirono crepe da cui sortirono varie conseguenze, non tutte negative. Negativo fu l’estenuante prolungamento di un anno di estrema instabilità sociale, che finì per esasperare e radicalizzare la conflittualità politica e indebolire per oltre un decennio la nostra vita repubblicana. Un prolungamento che avvenne sulla base quasi esclusiva dell’idea di dover “fare la rivoluzione”. Positivo fu rose, oltre all’anelito libertario e allo spirito partecipativo della prima contestazione giovanile, quello stesso prolungamento, perché finì per esaurire i residui di rivoluzionarismo e di sovversione alla modernità industriale massicciamente presenti nella cultura politica italiana. un antidoto incluso nel virus? Può darsi, ma il paradosso lo scontarono gli anni Settanta e chi li visse”.