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L’ascesi infranotturna di Paolo Valesio

recensione a: Paolo Valesio, La mezzanotte di Spoleto, Raffaelli Editore, Rimini 2013, pp. 94

La mezzanotte è, da sempre, l’ora magica di ogni favola. L’ora della svolta, il momento in cui l’incantesimo solitamente si spezza, finisce, si esaurisce. Per Cenerentola, almeno, è così. Ma è anche l’ora che dà senso a quelle precedenti, rende spasmodica e tutta da vivere la sera, e, sotto certi aspetti, apre ancor più al mistero le ore notturne successive, quelle del dopo-incontro con la bellezza innocente e inattesa di Cenerentola tramutatasi in principessa, o in qualcosa di molto simile ad essa. È in questa terra incognita che si aggira il poeta Paolo Valesio, capace di creare coi versi un’atmosfera che trasforma le vie e i monumenti, i luoghi sacri e i teatri che ospitano il Festival dei Due Mondi, nonché la limitrofa campagna che circonda la città di Spoleto. Ed è così che la favola sfuma nei cieli della santità, perché siamo in Umbria, regione come nessun’altra della penisola italica e del vecchio continente europeo ove albergano tracce evocative e simboli tangibili di una santità povera e mendicante, che opera con “carità chirurgica” sui suoi visitatori non distratti e fuggitivi (Desiderii). Il magico e il sacro si incontrano, incrociano e mescolano nelle pagine che qui recensiamo.

Non è peregrino muoversi su questo doppio binario del sacro e del profano, tra religione e magia, al limite della favolistica, nel mentre si tenta di dare conto della più recente avventura poetica di Valesio: La mezzanotte di Spoleto, opera dalla lunga gestazione, ad un certo punto abbandonata, infine ripresa e rielaborata nell’arco di circa un decennio. Di cosa narra questa raccolta di versi? Un viaggio al termine della notte, quello del poeta, durante il quale si cerca di dire e fare tutto “prima che scocchi l’ora del finire” (Desiderando parola). Ma questa smania è come sublimata, e quindi mitigata, da una parola ora lieve e delicata, di quasi arcaica ascendenza, ora ironica e futurista, di inedito e beffardo conio, ma sempre dotata del medesimo effetto straniante, come di sospensione nel tempo, fermato e dilatato, entro uno spazio reso labirinto magico in cui perdersi per ritrovarsi. E a fungere da filo d’Arianna è una parola usata come strumento sacro, benedetto e benedicente, per ritrovare lei, o meglio lui e lei. Perché il poeta è anch’egli sdoppiato, tra io narrante e io narrato. Ed è riflesso, rispecchiato da quel suo rovescio che è lei, la narrata che di lui, riflettendo, narra. Gioco di specchi e infiniti rimandi in riecheggiante terra umbra.

Nella fresca aria notturna si odono pure sussurri e ansimi d’erotismo lieve ma insistito che sbucano qua e là tra i suoni giocati dalle parole lussuriosamente cercate da Valesio, poesia dopo poesia, anche tra un Salmo in epigrafe e una preghiera come nota a margine. Sussurri e ansimi che si fanno vieppiù insistenti nel corso del girotondo notturno fra le strade e le chiese spoletine, persino. Luoghi che stanno lì, certezze immarcescibili, convinzioni insradicabili, “come il pilastro d’un destino” (Fonìa). E che ricordano quella pausa al meriggio che taglia in due l’intero poema, come primo e secondo atto di una commedia umana, che non può svolgersi “se non nel tuttassurdo dell’amore” (Desiderando parola). E nel Concerto di mezzogiorno vi sono echi della notte che si assapora nel desiderio anticipante e di ciò che si preannuncia come la conclusione di quell’“inferno dolce e bonario” messo in musica da un’opera ascoltata in ora meridiana dal “loggione del Caio Melisso” (Paradiso). E il mezzodì di Valesio evoca boschi, nicchie e statue, tutti inghiottiti da una foresta che ha non poco di baudelairiano, e pare un tempio di corrispondenze. Ed è evidente che Valesio non può aver apprezzato Marinetti e le sue scorribande paroliberiste senza aver prima provato brividi simbolisti, se non persino decadenti.

“Il bivio è nella pelle e nella mente” (Monteluco), dice il poeta che nelle proprie fantasie consumate durante un meriggio da fauno pregusta quelle danze notturne che menerà fino all’approssimarsi dell’alba. Lo fa capire, lo accenna, ma niente più; preferisce lasciare poi come altro personaggio di favola, Pollicino, briciole di sensualità tra le pieghe dei versi vergate nelle pagine che vanno a seguire. “E resta l’altro: il bivio / del lavoro mentale / (con il cervello teso / a sollevare sacchi / a travasar secchi). / Che cosa fa la mente / con gli anni del peccato?” (Ibid.). Eppure all’estasi intramondana, sensuale troppo sensuale, il poeta lascia intuire la sua predilezione per “l’Ascesa del Monte” (Ibid.). Il bivio, quel doppio bivio, cova in entrambi i casi un’urgenza di trascendenza.

Scorre dentro l’intero poema valesiano una voluttà che ricorda certe pagine di Vivant Denon, e di colui che ce lo ha dissotterrato e riconsegnato non troppi anni fa, Milan Kundera, il moravo francesizzato, ed una certa lenteur, infatti, pervade le immagini innescate dai versi di Valesio, pagina dopo pagina. Di questa lentezza, di questa reiterata e compiaciuta dilazione per accrescere la voluttà del godimento e protrarne un consumo senza fine nel sogno, si ritrova nei versi di Valesio una massima degna della migliore filosofia libertina. La si ritrova proprio dentro una ricerca della parola che sia capace di rinominare luoghi sacri e che di sacro cerca d’impregnarsi in questo vagabondaggio di notte spoletina: “Il presente è essenziale e incomprensibile; / il futuro, inguardabile; il passato / intoccabile” (Monteluco). Il presente come momento generativo, finanche creaturale, ma sempre avvolto nel mistero, al pari di quel che è stato e, superfluo ribadirlo, di quel che sarà, nell’insondabile che martella di domande e dubbi quel solitario impenitente che è il poeta che osserva trasognante il rincorrersi del proprio sé e della sua lei nottetempo per le vie.

Ecco: la solitudine. Parola-concetto che ritorna più volte in diverse poesie della raccolta. Ora come aggettivo, ora come sostantivo abbinato ad un altro sostantivo, neologismo già classicizzato: “la mia solitudine / non è santitudine” (Fra le quinte del teatro). E solitudine è condizione necessaria, quand’anche non sufficiente, per tentare la via mistica, tentazione che serpeggia suadente in quasi l’intera raccolta della Mezzanotte di Spoleto. Fondamentali gli interrogativi e le risposte che punteggiano il componimento Whistling in the dark, e che meritano perciò ampia citazione: “Che cos’è mai un uomo spirituale? / Cosa precaria e fragile, aperta a tutti i venti. / Sempre attento – / dentro e fuori dall’ombra – / e solo. Perché attento? / Al buio, il solitario ridiviene bambino: / incoraggia se stesso / e fischia (o prega, o sorride) / rivolto al muro del mondo”. Il solitario, il bambino, e un qualcosa che assomiglia tanto all’angelo di Rilke, che, come ebbe a scrivere molti anni fa Massimo Cacciari, “è memore della caduta e perciò è oppresso da una tristezza inesorabile. Ed è questa stessa tristezza che lo avvicina all’uomo […]. Se si vogliono tenere insieme polarità distinte come parola e silenzio, manifestazione e invisibile, l’angelo è la figura ‘necessaria’ di questa rappresentazione”. E il riferimento esplicito è alla celebre poesia di Wallace Stevens, che, ad un certo punto, proclama: “io sono l’Angelo necessario della terra, / poiché chi vede me vede di nuovo / la terra, libera dai ceppi della mente, dura, / caparbia, e chi ascolta me ne ascolta il canto / monotono levarsi in liquide lentezze e affiorare / in sillabe d’acqua; […]”. Dunque, il solitario, il bambino e l’Angelo necessario della terra; questo il processo ineluttabile di trasmutazione alchemica di cui Valesio tenta l’innesco.

Ma Cacciari ci dice anche che l’angelo rilkiano è inesorabilmente triste. Tristezza? Ma ce n’è forse nei versi di Valesio? Non mi pare, se non quell’ombra di cui leggevamo prima, in Whistling in the dark, quel velo di melanconia che già Schelling riscontrava “connessa ad ogni vita finita” e che però “non arriva mai a realizzarsi, e serve soltanto all’eterna gioia del trionfo”. Il fatto è che “solo nella personalità è la vita”, ammoniva lo Schelling delle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (1809), “e ogni personalità riposa su un fondamento oscuro, che deve quindi essere anche il fondamento della conoscenza”. Ricerca delle fondamenta da parte di quegli “incurabili” dalla nostalgia dell’essere che sono i poeti, anche i meno dichiaratamente credenti e legati dalla fede al cielo.

Dichiarata e forte è la presenza di san Francesco, l’assisano, sorte di nume tutelare del viaggio entro i confini della notte compiuto dal poeta in compagnia della sua storia di coppia. Notte in cui “Regno animale e regno vegetale / e regno umano e regno angelicale: / i confini sembrano / indebolirsi come in una nebbia – / paiono graffi, superficialmente / graffiti e graffiati / sopra la pelle del mondo” [Gli animanti (Glossa a san Francesco)]. Poesia e francescanesimo sono sinonimi e Valesio pare accomunarli sotto il segno di Orfeo, altro nume tutelare del pensare-parlare in versi: “gli uccelli sono spiriti / dispersi poi subito ripresi / al volo, spiriti contesi / tra gli angeli e gli umani / gli uccelli sono angeli / rimpiccioliti / ma restano aggraziati / gli uccelli sono angeli terricoli” (ibid.). Francesco, l’assisano, è più di un nume tutelare, è il Virgilio del purgatorio spoletino che Valesio ricostruisce poesia dopo poesia, ciascuna dalla forma e dallo stile differenti dalle altre, ora elegiaco ora dialogico, ora classico ora modernista. E però, se si legge tutto d’un fiato la sua nuova raccolta, se ne coglie la natura compatta, quasi monolitica, come si trattasse di un canzoniere; più precisamente ancora: di un poema che descrive un viaggio, ed è qui che si palesa l’eco dantesca.

Valesio non teme di lasciarsi andare a sconfinamenti tra sacro e profano, anche se è un trasgressore sempre pudico, e Francesco pare quasi chiamato a far le veci di Cupido, quando, al termine del viaggio, nei versi finali dell’ultimo componimento della raccolta, epilogo dal carattere volutamente ed elegantemente gnomico, è oggetto della seguente invocazione: “Ma tu, Francesco, continui: / aggrampellato al suolo serpeggiando / e sopra gli scalini rimbalzando / tenti di far sentire ai due seduti / che si sono irretiti in teleragne / di dubbi e di pensieri troppo piccoli; / che oscillano nell’altalena / della dialettica frode: / desiderio, non-desiderio… / Ma via, via da questi involvimenti! / Ognuno di quei due deve tentare / di visibilizzare / l’altro; e il prezzo per questo da pagare / è rendere invisibile se stesso” (San Francesco d’Assisi davanti al bar “Tric-Trac”).

A commento dello Schelling del 1809, cercando possibili ragioni di quel fondo di tristezza che del pensiero è sostegno e del pensiero fa una fonte di vita, e potenzialmente di gioia, per l’essere umano, George Steiner ha scritto: “la padronanza del pensiero, della velocità perturbante del pensiero esalta l’uomo al di sopra di tutti gli altri esseri viventi. Ma lo lascia straniero a sé stesso e all’enormità del mondo”. Di una simile aporia filosofica, tra possesso e abbandono sempre in virtù e a causa del nostro essere soggetti pensanti, Valesio pare offrire una risposta poeticamente fondata e aperta a farsi religione, legame dell’uomo con il sacro, che altro non è che natura fattasi carne e sangue e ossa, e l’“altro” è ciò che devo riuscire a rendere visibile ai miei occhi togliendomi dalle palpebre il velame del mio egotismo. E nella poesia finimmo così per scoprire insospettabili sentieri che conducono nelle radure dell’etica. Il soggiorno a Spoleto pare avere insegnato questo tragitto ascetico a Paolo Valesio, bagnatosi di santa umiltà in terra d’Umbria.

[versione riveduta e leggermente ampliata di una recensione originariamente apparsa su “Italian Poetry Review”, VII, 2012, pp. 361-365]