Nell’ultimo rapporto della Guardia di Finanza sugli “sprechi” si scopre che in nove mesi si sono avute frodi allo Stato sulla spesa pubblica per un totale di 3 miliardi di euro.
Nei primi 9 mesi del 2012 sono stati infatti erogati 3 miliardi di euro a cittadini che non avevano i requisiti, quasi mezzo miliardo in più di quanto era stato percepito abusivamente nello stesso periodo dello scorso anno. La logica pare essere la seguente: se siamo in crisi bisogna ricorrere ancor di più all’appropriazione indebita di denaro pubblico. Non a caso, la “voce” più consistente rimane quella dei danni erariali causati dai pubblici dipendenti, con oltre un miliardo e mezzo di danni contestati a quei funzionari e impiegati che hanno contribuito a prosciugare le casse di enti e società commettendo falsi e abusi, ma soprattutto intascando “mazzette”.
Uno degli aspetti più inquietanti riguarda le forniture agli ospedali: nonostante uno dei reparti di un ospedale pugliese fosse adibito all’assistenza per gli anziani, è stato chiesto il rimborso di derrate alimentari come snack, patate fritte e bibite gassate che i dipendenti, anziché fornire agli ospiti, avevano provveduto a rivendersi privatamente. Per non parlare dei rimborsi ottenuti per lavori di manutenzione degli immobili che in realtà non sono mai stati effettuati. La denuncia finale parla di un danno economico per le casse pubbliche pari a oltre due milioni di euro e di beni sequestrati per un valore complessivo di 2 milioni e 150 mila euro.
Ho già ricordato in un precedente mio intervento alcuni casi recenti di clamorose truffe ai danni dell’Inps. Danni all’erario vengono arrecati da molti singoli cittadini non soltanto tramite l’evasione fiscale. L’illegalità diffusa, gestita dalla grande e piccola criminalità organizzata, dà il suo importante e imponente contributo. Si prenda il mercato delle merci contraffatte, che secondo dati recenti del Censis e del Ministero dello Sviluppo economico, brucia 110 mila posti di lavoro e costa 1,7 miliardi di euro all’anno in termini di mancate entrate. Un mercato alimentato da una domanda crescente, con il 42,3% dei casi in Campania, per un fatturato complessivo di 6,9 miliardi.
Ha quindi ragione Nadia Urbinati, quando di recente ha evidenziato come nella politica abbia “trovato il proprio porto franco una società civile affamata di risorse ottenute con poca fatica, di privilegi, di complicità illecite”.
“Il marcio è nelle istituzioni perché è fuori”, sentenzia sempre Urbinati, e non è facile darle torto. “C’è davvero poco di che illudersi a leggere le cronache di queste settimane”, prosegue la docente della Columbia University, che però aggiunge con sano realismo: “Eppure non c’è un altrove dal quale attingere per trovare le risorse che dovranno risanare la democrazia. E quindi occorre che cittadini onesti e pubblica opinione con senso di responsabilità e amore della verità vogliano mettere la loro consapevolezza e la loro fatica al servizio di questa democrazia malata”.
In tal senso, è da salutare come benvenuta ogni novità sul piano politico, soprattutto se vede all’opera persone finora mai implicate nella gestione della cosa pubblica e perciò non legate a vecchie e nuove clientele. Il riferimento è ovviamente al Movimento 5 stelle promosso da Beppe Grillo, il quale mescola a consueti argomenti populistici e qualunquisti un appello a nuove forme di impegno e partecipazione dal basso che restano il sale di ogni democrazia bene intesa. A ben ascoltare i comizi del comico genovese si coglie la mancanza di programmi veri e propri, il che è indubbiamente un limite. Si solletica la pancia di una popolazione resa ora più ricettiva dalla prolungata crisi economica e dalla schiacciante situazione fiscale. Però la campagna siciliana ha svelato come nel cosiddetto “grillismo” vi sia un invito ai cittadini “qualunque” a riprendersi direttamente la gestione della cosa pubblica, partecipando alla vita delle istituzioni, entrandovi dentro. Le soluzioni ognuno dovrà trovarle da sé, o meglio assieme agli altri cittadini “qualunque” con cui vorrà confrontarsi e collaborare per migliorare una situazione che si fa di giorno in giorno più pesante sotto molti aspetti, non solo economici.
L’economia resta però la molla che più di altre potrebbe rimettere in moto una partecipazione che sola può ridefinire in senso proprio una società civile degna di tal nome. Non una creatura mitica e salvifica, ma un contropotere, né migliore né peggiore, al potere finora indiscusso di una partitocrazia divenuta oligarchia grazie anche alle ripetute deleghe in bianco fornitegli in tutti questi decenni di vita repubblicana da una cittadinanza adagiatasi sulla soglia dell’urna elettorale. Il benessere diffuso nella società italiana, e ancora in parte presente, l’ha ricondotta nei decenni passati all’antico motto guicciardiniano e cinquecentesco “o Franza o Spagna, pur che se magna”. Una politica intesa come lotta ideologica così accesa da far scoppiare bombe e stagioni di piombo ha ulteriormente alimentato una fuga dalla politica.
C’è una frase di Grillo, pronunciata in un comizio siciliano, che merita una riflessione da parte di chiunque abbia a cuore il ragionamento sulle cose, anche se, come per il sottoscritto, si nutrano non poche riserve sul Movimento 5 stelle. Ma non è certo questo che interessa o si chiede a chi per professione deve fornire letture oneste e non faziose della realtà sociale e politica che ci circonda. La frase di Grillo suonava più o meno così: “tu puoi anche non interessarti della politica, ma sarà comunque la politica a interessarsi di te. E già lo fa, e lo sta facendo in modo sempre peggiore”. Ecco, in una considerazione del genere, del tutto ragionevole, nient’affatto demagogica ma corrispondente al vero, si racchiude l’essenza dello spirito democratico. O, per essere meno enfatici, di quel meccanismo omeostatico, ossia riequilibratore, che deve operare in un sistema che voglia mantenersi liberaldemocratico.
Dico dunque che il fenomeno del grillismo, così come accade per molti movimenti più o meno populistici, va preso come l’occasione per far circolare nuove richieste e nuove forme di compartecipazione e condivisione delle scelte collettive. Ognuno deve fare la propria parte per quel che si sente di poter dare, in idee od opere, ma sempre tenendo conto che si rema insieme o si affonda insieme. Diciamo la verità: non per tutti i membri di una società è così, tanto meno se parliamo di società comunque a benessere diffuso ed economicamente interconnesse con il resto del mondo. Non pochi possono anche infischiarsene dello sviluppo del proprio Paese, potendo contare su delocalizzazioni e trasferimenti dei propri capitali all’estero. Ma non è su questi strati elevatissimi che una società democratica si fonda e può reggere. È piuttosto su quei ceti medi di cui oggi da più parti si annuncia la scomparsa per cessato funzionamento dell’industria manifatturiera, ma che invece credo siano sin dai tempi di Aristotele il perno di ogni “governo misto”, ovvero di ogni sistema bilanciato e moderato che fa della misura, e dunque di una relativa equità, giuridica ed economica, la propria ragion d’essere. E dal secondo Novecento in poi, l’aurea medietas si è estesa fino a ricomprendere la fetta maggioritaria della popolazione di uno Stato, e così “governo misto” e “democrazia” hanno teso a identificarsi.
È indubbio che i ceti medi del Duemila non potranno essere più gli stessi degli anni Cinquanta o Sessanta del Novecento. Almeno per quanto riguarda le democrazie occidentali. Dall’industria ai servizi: si è consumato qui un passaggio essenziale nella forma, ma non credo nella sostanza. L’interesse al “giusto mezzo”, inteso come equilibrio e moderazione, ovvero l’interesse, economicamente e fiscalmente parlando, ad una non eccessiva sperequazione resta centrale per quelle figure professionali, lavorative, sociali, che hanno redditi né alti né bassi, medi appunto (anche se la vera media aritmetica sarebbe altra, computando stipendi e rendite dell’élite di cui sopra).
L’unica forma di controllo è un autogoverno inteso come partecipazione e condivisione delle scelte che riguardano la collettività, a partire dal livello locale per salire a quello nazionale. La sussidiarietà e il decentramento di funzioni e risorse avrebbe dovuto favorire questa responsabilizzazione nell’esercizio del potere pubblico, ma se non vi si associa la partecipazione dei cittadini l’unico risultato è la creazione di oligarchie locali che si sommano a quelle nazionali. Ad alimentare una tale forma di partecipazione non c’è però legge che possa aiutare. È questione di volontà, o abitudine, a pretendere voce in capitolo e all’esercizio del controllo di tutto quanto ricade sulle proprie teste. È questa la fantomatica cittadinanza attiva, che poi, come si vede, tanto fantomatica non è. La società civile è per la democrazia liberale paragonabile a quell’affascinante ma difficile compagna della quale ci viene ogni giorno da dire: né con lei, né senza di lei.