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Stato e nazione in Italia all’ombra del ’68

La riflessione che Dino Cofrancesco ha di recente proposto alla nostra attenzione sul forum di “ParadoXa” (Il sessantottismo come anticomunitarismo assoluto) parte dalla constatazione che la malattia di cui ha sofferto l’Italia a cominciare dal ’68, malattia forse mortale, comunque assai grave e prolungata, «è la crisi della comunità politica – la ‘morte della patria’ […] – ovvero l’assoluta incapacità di sentirsi parte di una ‘nazione’ (termine non certo caro alla political correctness), indipendentemente dalle opinioni e dalla varietà dei partiti in competizione per il potere. Non può esserci ‘senso dell’autorità’ in astratto se quanti ne sono portatori – in famiglia, a scuola, sul luogo di lavoro – non vengono percepiti come ‘funzionari’ e simboli di qualcosa che li (ci) trascende». Ma qui sorge il punctum dolens della nostra storia politica recente, delle origini della Repubblica democratica italiana, che nasce, sì, dalla Resistenza e dall’antifascismo, ma anche dalle macerie di uno Stato-nazione che il fascismo ha doppiamente manomesso fino al punto di sfasciarlo. In primo luogo, ha dato vita ad una dittatura ventennale, ad un regime liberticida. In secondo luogo, ha condotto la nazione ad una guerra finita con una sconfitta rovinosa con l’appendice di una guerra civile conseguente (anche) alla scelta originaria di un alleato, la Germania hitleriana, votato, sin dall’inizio e ancor più dopo il prospettarsi di una sicura sconfitta, ad un cupio dissolvi nichilista di proporzioni tragicamente immani. In sintesi, il nesso risorgimentale tra nazione e libertà è stato sciolto nell’acido dal sogno imperialistico fascista.

A questo punto le due culture politiche dominanti lo scenario italiano postbellico, la cattolica e la comunista, non erano in grado di ricongiungere in modo inequivocabilmente credibile e intimamente convinto quel nesso sciolto e dissolto. Colui che più si avvicinò a farlo, e consentì un riavvio carico di premesse e promesse positive, fu Alcide De Gasperi. Togliatti incontrò non poche difficoltà sia con l’idea di nazione sia, e ancor più, con l’idea di libertà, intesa in senso liberale, costituzionalistico e compatibile con l’economia di mercato, imprescindibile motore di una produzione di ricchezza indispensabile per la ricostruzione postbellica. E su questo versante altro artefice della rinascita postfascista fu Luigi Einaudi. La tradizione comunista guardava altrove, a Mosca, al superamento del liberalismo borghese e capitalistico in nome del socialismo sovietico, pianificatore e internazionalista (nei fatti: imperialistico). Covava al suo interno il mito della rivoluzione proletaria mai dismesso, e pronto ad infiammare generazioni di gioventù ora bruciata e arrabbiata, ora eccitata e confusa, sempre e comunque trascinata da una modernizzazione che negli anni Sessanta in Italia accelerò in modo repentino e travolgente il passaggio ad una massificata società post (o iper) borghese, individualistica e consumistica. L’antiautoritarismo si trasformò in diffuso costume anti-istituzionale, con spinte utopistiche, a cui tanto la cultura politica cattolica quanto quella comunista poterono offrire argomenti e simboli.

Renato Guttuso, I funerali di Togliatti (1972)
Renato Guttuso, I funerali di Togliatti (1972)

In altre parole, se è vero che, come scrive Cofrancesco, è stato «il tramonto, nelle coscienze, dello Stato nazionale che ha rimesso in discussione il principio di autorità», le responsabilità principali di un tale tramonto furono del fascismo, a cui le culture politiche antifasciste più importanti non furono in grado di fornire risposte sufficienti e adeguate. La crisi profonda del principio di autorità non trovò argini. La galassia azionista, multiforme e conflittuale al suo interno, ebbe alcune voci che, nel nome di una rinnovata tradizione risorgimentale, cercarono di ricostituire il nesso perduto nazione-libertà, ma all’interno di tale galassia finì comunque per prevalere un sentimento di subalternità nei confronti dei comunisti. I più fieri e orgogliosi tra gli azionisti ritennero di potersi ergere a “consiglieri del Principe”, ma sostanzialmente non andarono oltre il ruolo di “mosche cocchiere”, proprio come narrato da una favola di Fedro. La mosca adagiata sulla testa di un mulo, guidato da un cocchiere che ne tiene ben strette le redini, s’illude di esser lei a condurre l’animale.

In sintesi, la storia del Sessantotto italiano è stata anche, ma non solo, l’esito di una sequela di fallimenti in cui si erano contraddistinti, uno dopo l’altro e con gradi di responsabilità ben diversi, fascismo, cattolicesimo, comunismo, azionismo. Il fascismo aveva sciolto il nesso tra nazione e libertà ed aveva fallito nel sostituire la seconda con l’idea e la pratica della potenza. Cattolicesimo, azionismo e comunismo non hanno saputo, o potuto o voluto, riallacciare quel nodo, così che la democrazia repubblicana successiva alla seconda guerra mondiale ha preso forma in Italia senza un riferimento chiaro, inequivoco e senza imbarazzo alcuno, al valore e alle istituzioni dello Stato nazionale. Le «strisce di nazionalizzazioni parallele» ricostituite da Dc e Pci, come scrive nel suo articolo Cofrancesco, non sortirono duraturo effetto rigenerativo. A mio modesto avviso, furono rimedio persino peggiore del male, perché abituarono a quelle “appartenenze separate” descritte così bene da Pietro Scoppola nel suo ampio e perspicuo volume La repubblica dei partiti. Se non rimedio peggiore del male, furono un palliativo, talora generoso e a fin di bene, rispetto alla necessità di un recupero pieno e condiviso dell’identità nazionale, che, sempre Scoppola scriveva, tende a coincidere con il senso della cittadinanza democratica.

Per capire infine cosa sia venuto a mancare nel secondo dopoguerra italiano, e in che misura il Sessantotto sia stato al contempo esito ed evento evidenziatore di una lacuna, di un deficit, basterà volgere lo sguardo ai cugini d’oltralpe. La storia della Francia tra il 1939 e il 1960 ci dice della scelta decisiva, inizialmente minoritaria ma compiuta in tempo utile, del generale Charles de Gaulle che con la “France libre” portò in salvo a Londra tanto la nazione quanto la libertà. Quel 18 giugno del 1940 la Francia pose una premessa, lontana ma fondamentale, perché la contestazione sessantottesca, con relativa destabilizzazione politica, sociale e istituzionale, durasse l’espace d’un matin, o di un mese, il mitico joli mai. D’altro canto, con de Gaulle la Francia era riuscita nell’arduo compito di risultare vittoriosa su nazismo e fascismo da nazione largamente collaborazionista quale fu dal giugno 1940 in poi. L’Italia, dal canto suo, era nazione sicuramente sconfitta, la cui piena sovranità statale non fu più recuperata ma lasciata dimezzata dalla Guerra Fredda che subito seguì alla liberazione da fascisti e nazisti. La Repubblica democratica sorse pertanto sull’impalcatura di uno Stato poroso, attraversato e penetrato dai servizi segreti di potenze straniere. Fu così che nella nostra penisola la Contestazione, esplosa dopo un decennio di preparazione, si sarebbe prolungata, fino all’estenuazione, per almeno un ventennio. E oltre, sia pure sotto mentite spoglie. Ciò nonostante, uno Stato nazionale è giunto sino a noi, anche se profondamente fratturato dal persistente e sempre più acuto divario tra Nord e Sud. Molto ma non tutto, di esso, è perduto. Una sua rimessa in forma è la sfida politica, forse ancora praticabile, che abbiamo davanti.