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Machiavelli, rinascimentale nostro contemporaneo

recensione a: William J. Connell, Machiavelli nel Rinascimento italiano, FrancoAngeli, Milano 2015, pp. 267.

Come sempre succede con i più grandi classici del pensiero, anche Machiavelli rischia di restare intrappolato non solo in stereotipi duri a morire ma anche in analisi autoreferenziali. Si dimentica spesso il contesto storico e culturale nel quale un pensiero germoglia e sboccia. Tenuto conto che la lezione metodologica di Quentin Skinner, diffusasi in ambito angloamericano, ha avuto ricezione relativamente circoscritta in Italia, William Connell, storico statunitense dalla lunga frequentazione di studiosi, biblioteche e archivi del nostro Paese, ha pensato bene di “ricollocare Niccolò Machiavelli nel Rinascimento italiano” (p. 14). Ciò non significa ridurne l’originalità, ma piuttosto evidenziare come dentro quel clima politico e culturale il Segretario fiorentino visse un rapporto misto di attrazione e repulsione. È il modo migliore per cogliere la sua costante esigenza, enunciata all’inizio dei Discorsi, di “entrare per una via […] non […] ancora da alcuna trita”.

Il volume di Connell mette così insieme una serie di studi elaborati e pubblicati negli ultimi tre decenni, tutti ruotanti attorno al confronto critico tra Machiavelli e il suo tempo. Un raffronto dal quale emerge, ad esempio, come sul tema dell’espansione territoriale come fine dello Stato egli fosse più legato al modello repubblicano romano che a quello delle nascenti monarchie a lui coeve. Il primo saggio si dedica proprio a questo tema. Se tra i machiavellisti c’è chi, come Friedrich Meinecke e Federico Chabod, ha privilegiato la diplomazia internazionale dei primi anni del XVI secolo, ritenendo che Machiavelli si contraddistingua per aver colto sul nascere la trasformazione delle monarchie nazionali europee in Stati moderni, c’è invece chi, come Hans Baron, J.G.A. Pocock e Quentin Skinner, ha sottolineato il legame con il contesto della politica repubblicana fiorentina e dunque con le tradizioni del pensiero antico e dell’Umanesimo civile. Se i primi interpreti hanno perciò concentrato la loro attenzione su testi come Il Principe e le Legazioni, i secondi hanno ritenuto che il repubblicanesimo dei Discorsi su la prima deca di Tito Livio costituisca il cuore del pensiero machiavelliano, mentre Il Principe sarebbe soltanto un’opera isolata, di valore più contingente.

Connell propende per questa seconda linea di interpretazione, evidenziando però come Machiavelli riprendesse da Cicerone l’attenzione per la costruzione dell’impero, svincolandola però da qualsiasi preoccupazione per la “virtù”. Non era questo il fine supremo a cui rimettere l’azione politica. Uno Stato doveva mirare all’espansione, a meno che non potesse restare entro i propri limitati confini. Ma nei tempi a lui coevi, ciò risultava evidentemente impraticabile, dal momento che la situazione geopolitica era in continua ebollizione, causa la crescita delle prime monarchie nazionali. Dall’esempio dei Romani, Machiavelli traeva la seguente lezione: non l’“imperio”, ossia il dominio territoriale ben circoscritto, giurisdizionale e centralizzante, doveva essere il fine, bensì la “forza”, ovvero, puntualizza Connell, la capacità di “trasformare gli alleati (non i soggetti) in eserciti cittadini, e nel trovare modi per incanalare verso la conquista dello straniero le energie dei conflitti di classe fra i grandi ambiziosi e il popolo” (p. 33). Nel proporre questo, l’ex Segretario fiorentino si poneva in controtendenza rispetto al suo “contesto”, ovvero alle idee della gran parte degli scrittori a lui contemporanei, a cominciare da Francesco Guicciardini. E rompeva con la tradizione sia del pensiero antico, da Platone ad Aristotele, da Senofonte a Cicerone, sia dell’umanesimo civile.

Un ritratto (postumo) di Niccolò Machiavelli, attribuito ad Antonio Maria Crespi detto il Bustino (datato 1613-1621)

Nel secondo saggio Connell tiene a precisare come la tradizione di studi della “Cambridge School”, a cui egli stesso si sente più vicino, debba recuperare il nesso, filologicamente accertabile, fra Il Principe e i Discorsi, tornando a leggere questi ultimi alla luce del primo. Solo così si potrà rendere pienamente conto del fatto che Machiavelli produsse una “forte critica del pensiero politico classico, come testimoniato dall’adesione di questo autore a quelle idee molto diverse di imperialismo, fazione, classe e ambizione” (p. 49). In tal senso può risultare assai utile un ulteriore lavoro di scavo e contestualizzazione del carteggio di Machiavelli, inclusa la famosa lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, da cui si sono finora ricavate le maggiori ipotesi di composizione e datazione del Principe. Si potrebbe infatti consolidare la tesi che sostiene che i primi diciotto o venti capitoli del primo libro dei Discorsi siano stati redatti, almeno in un primo abbozzo, ancor prima della stesura del Principe. Sia Felix Gilbert che Gennaro Sasso, ad esempio, si sono espressi in tale direzione: che, insomma, i Discorsi sarebbero stati avviati prima ma temporaneamente interrotti per sostituire ad una riflessione di carattere storico e teorico “un’immediata e non più dilazionabile soluzione pratica” (Ugo Dotti, Introduzione a N. Machiavelli, Il Principe, Milano, Feltrinelli, 2014, p. 20), di cui Il Principe fu l’esito finale. Un vero e proprio “manifesto politico”, quale parve essere, pur da angolature diverse, sia ad Antonio Gramsci che a Federico Chabod. A tutto questo rimandano le considerazioni contenute nel terzo saggio.

Tutte da leggere e meditare, poi, sono le pagine del quarto saggio, dedicate da Connell ai tempi e modi di composizione del Principe, “espressione di idee” la cui prima elaborazione risalirebbe probabilmente al 1506. Pertanto, seppur si tratta di testo che nasce non disgiunto da coeve riflessioni sulla storia repubblicana dell’antica Roma, Il Principe non sarebbe “un’opera composta in modo affrettato”, bensì “un lavoro meditato a fondo” e ripreso, anche sotto la pressione di esigenze impellenti, tra il 1513 e il 1514 (p. 110).

Sostanzialmente marginale la figura di Machiavelli nei cinque corposi saggi seguenti, dedicati rispettivamente a: Il “commissario” e lo stato territoriale fiorentino; Il cittadino umanista come ufficiale nel territorio: una rilettura di Giannozzo Manetti; Clientelismo e stato territoriale. Il potere fiorentino a Pistoia nel XV secolo; Appunti sui rapporti dei primi Medici con i comuni del territorio fiorentino; Un rito iniziatico nel Libro del Cortegiano di Baldassarre Castiglione (da p. 118 a p. 233). Comunque, si tratta di contributi assai interessati, ricchi di appendici documentarie e iconografiche, con alcuni tratti innovativi ai fini di una migliore comprensione del “contesto” politico-istituzionale e socio-culturale, anzitutto locale, ossia fiorentino, nel quale anche l’esperienza politica, prima, e l’opera letteraria, poi, dello stesso Machiavelli poterono svilupparsi e maturare.

Una certa originalità interpretativa si rinviene nell’ultimo contributo del volume, nel quale si esamina l’influenza che il recupero in epoca umanistica della dottrina aristotelica della “eternità del mondo” abbia favorito la rivoluzione storiografica rinascimentale e il conseguente sviluppo del pensiero storico secondo un approccio che ne ha fatto la madre delle scienze umane. Anche se Connell ritiene che probabilmente il suo intento di fondo fu “piuttosto contemplare e giocare con la tesi eternalista anziché abbracciarla in maniera dogmatica” (p. 250), resta il fatto che Machiavelli fu coinvolto da questa svolta teorica e ne ricavò ulteriori motivi per dubitare della cronologia biblica e della concezione provvidenzialistica dell’esistenza umana.