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Voci che riecheggiano/1 – A proposito di cosa sia “vera democrazia”

Con questi due brani, rispettivamente del 2008 e del 1997, attuali come non mai, ricordo un classico contemporaneo, scomparso da meno di un anno, ed inauguro una nuova rubrica del mio blog: “Voci che riecheggiano”.
Si tratta di pensieri dal respiro immortale, come quelli qui espressi da Giovanni Sartori (13 maggio 1924 – 1° aprile 2017), politologo fiorentino che tanto ancora potrà insegnare a chi solo voglia leggerne gli scritti che ci ha lasciato quale inestimabile eredità intellettuale. In tempi di campagna elettorale e scelte di voto, una lettura che fa tenere la testa alta, ben al di sopra del rumore assordante della propaganda, così che la ragione possa respirare e i pensieri sappiano fluire liberi e consapevoli. Anche oltre il momento, la situazione contingente. I classici, già tali o che tali diverranno, servono esattamente a questo [DB].

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Abbiamo visto che la democrazia elettorale non è molto esigente. Si contenta di pubblici abbastanza autonomi e abbastanza informati da essere in grado di scegliere chi deciderà le issues, le questioni. Nella democrazia come partecipazione, l’idea è invece che esiste un cittadino partecipante che decide in proprio anche le questioni (invece di affidarsi ai rappresentanti). È possibile? O meglio, sino a che punto è possibile?

“Partecipazione” è prendere parte attivamente e volontariamente di persona. “Volontariamente” è una specificazione importante perché, se la gente viene costretta a partecipare a forza, questa è mobilitazione dall’alto e non partecipazione dal basso. Insisto: partecipazione è mettersi in moto da sé, non essere messo in moto da altri e mobilitato dall’alto.

Il problema è che esiste un rapporto inverso tra efficacia del partecipare e numero dei partecipanti. Questo rapporto è espresso da una frazione, nella quale il numeratore è 1 (il singolo partecipante) e il denominatore registra il numero degli altri partecipanti. Per esempio, in un contesto di 10 partecipanti io sono influente per un decimo. Il che va benissimo. Ma se i partecipanti sono 1000, andiamo meno bene. In questo contesto, il mio peso partecipante è di un millesimo. E se l’universo dei partecipanti è, per esempio, di 10 milioni, la nozione di “essere parte” svapora nel nulla. Essere partecipe del decimilionesimo di una decisione non ha più senso.

Il fatto è allora che la partecipazione vera ha le gambe corte, è cioè confinata ai piccoli numeri. I sostenitori della partecipazione spostano il discorso e dicono: nella misura in cui la partecipazione non si può esprimere efficacemente, prendendo parte alle decisioni di persona, in questa misura la democrazia partecipativa si trasforma in una democrazia diretta referendaria e/o elettronica (che si esprime votando “sì” o “no” su un computer). Attenzione: la differenza è grandissima, perché qui non esistono più interazioni “faccia a faccia”. Votare in un referendum o sul proprio computer ridiventando atti solitari. Qui la partecipazione come un prendere parte insieme non c’entra più. Resta però che in nome della partecipazione la democrazia rappresentativa, che è una democrazia indiretta, viene scavalcata e sostituita da una democrazia diretta.

Facciamo un passo indietro alla fine degli anni Sessanta, perché è allora che avviene il lancio della democrazia partecipativa. Al grosso dei partecipazionisti di quegli anni quel che interessava davvero era una assemblearismo in virtù del quale piccoli gruppi di attivisti diventavano le avanguardie traenti delle masse inerti. Il loro era, in sostanza, un elitismo di tipo leninista. L’ironia della vicenda è che quei gruppuscoli denunziavano – e in questo il loro successo è stato durevole – l’elitismo altrui.

Ora, l’appello a “più partecipare” è meritorio; ma gonfiato a dismisura, come se tutta la democrazia fosse risolvibile nella partecipazione, è una ricaduta infantile (come avrebbe detto Lenin). Ed è anche una ricaduta non solo di fatto impraticabile, ma anche concettualmente pericolosa, che ci propone un cittadino che vive per servire la democrazia, in luogo della democrazia che esiste per servire il cittadino.

Le democrazie nel loro grigio operare quotidiano spesso meritano poco credito. Ma lamentarsi del loro operato quotidiano è un conto, screditarle in linea di principio è un altro. C’è un discredito meritato, e c’è un discredito immeritato. E il discredito che deriva da un perfezionismo che senza sosta alza la posta è immeritato. L’ingratitudine che sembra caratterizzare il “bambino viziato” contemporaneo e la delusione che si accompagna così spesso agli esperimenti democratici sono anche il contraccolpo di una promessa troppo irraggiungibile per potere essere mantenuta. Il vero pericolo che minaccia una democrazia che non ha più ufficialmente nemici non sta nella concorrenza di controideali, sta nel reclamare una “vera democrazia” che scavalca e ripudia quella che c’è.

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Il problema è che la democrazia rappresentativa non ci soddisfa più, che chiediamo “più democrazia rappresentativa non ci soddisfa più, che chiediamo “più democrazia”, il che vuol dire, in concreto, dosi crescenti di direttismo, di democrazia diretta. […] Difatti i referendum sono in crescita e sempre più invocati. E anche il governo dei sondaggi finisce per essere, di fatto, un direttismo, una pressione dal basso che interferisce pesantemente nel problem solving, nella soluzione dei problemi. Sarà, questa, maggiore democrazia. Ma per esserlo davvero a ogni incremento di demo-potere dovrebbe corrispondere un incremento di demo-sapere. Altrimenti la democrazia diventa un sistema di governo nel quale sono i più incompetenti a decidere. il che vuol dire un sistema di governo suicida.

[…] Finora non ho insistito sulla distinzione tra informazione e competenza conoscitiva. È però una distinzione essenziale. Che io sia informato di astronomia non mi trasforma in astronomo, che io sia informato di come va l’economia non mi rende un economista, e che io sia informato di fisica non mi trasforma in un fisico. Analogamente, quando parliamo di persone “politicamente educate” dobbiamo distinguere tra chi è informato e chi è cognitivamente competente nel risolvere i problemi della politica. A questa distinzione corrispondono grosse variazioni tra le due popolazioni in questione. Si capisce che le percentuali dipendono da quanta informazione e quale cognizione siano rispettivamente considerate sufficienti e adeguate. Ma all’ingrosso i politicamente informati-interessati si aggirano, nell’Occidente, tra il 10-25 per cento dell’universo, mentre i competenti precipitano a livelli del 2-3 per cento.

Il punto non è, ovviamente, di conoscere esattamente quanti siano gli informati che seguono gli eventi politici rispetto ai competenti che sanno come risolverli (o che sanno di non saperlo). Il punto è che ogni massimizzazione di demopotere, ogni crescita di direttismo, richiede che gli informati aumentino e che, al tempo stesso, ne aumenti la competenza, il sapere e il capire. Se questa è la direzione di marcia, allora ne risulta un demos potenziato, capace di fare più e meglio di prima. Ma se, invece, questa direzione di marcia si inverte, allora approdiamo a un demos indebolito. Che è esattamente quanto sta accadendo.

Giovanni-Sartori

[Brani da, rispettivamente, G. Sartori, La democrazia in trenta lezioni, a cura di L. Foschini, Mondadori, Milano 2008, pp. 20-22; Id., Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Roma-Bari 2011 (13a ediz.), pp. 92-94. Tutti i corsivi sono nel testo]