recensione a: I “nonluoghi” della formazione della classe dirigente e della decisione politica in Europa e in Italia, a cura di Benedetto Coccia, prefazione di Michele Prospero, Editrice Apes, Roma 2016, pp. 186, € 15.
L’Istituto di Studi politici S. Pio V ha promosso, per la cura di Benedetto Coccia e con il contributo di giovani studiosi, una ricerca su un tema cruciale: ruolo delle élite e luoghi della decisione politica. Ruolo e luoghi effettivi o apparenti, poiché siamo di fronte a un fenomeno generalizzato di caduta delle classi dirigenti. Come rileva Michele Prospero nella prefazione, “nel quadro comparato che il volume presenta, il caso italiano risalta come espressione massima” di questo preoccupante fenomeno. L’età del pubblico nel quale vivono le nostre democrazie le rende sempre più fragili e ne favorisce la degenerazione demagogica.
Tutti e sei i saggi che compongono il volume meritano una attenta lettura. Con Simone Misiani si ricostruiscono le tappe di un processo storico che ha visto declinare prima e scomparire poi una cultura dirigente liberale e socialista che, alimentata da specifiche e concrete sedi quali Bankitalia e Svimez, aveva una visione complessiva dei problemi italiani e spinte riformistiche forti. Secondo Misiani, negli anni Settanta si è spezzata una continuità nella formazione di tale cultura. Una “occasione di correzione si perde negli anni Ottanta con il craxismo, una seconda occasione si ha con l’avvio della transizione dopo la fine della Guerra Fredda”. Anch’essa è stata “sostanzialmente perduta”. L’esito finale è sotto gli occhi di tutti.
Francesco Marchianò ci conferma come la fine della repubblica dei partiti stia diventando motivo di rimpianto, da annuncio di rinascita democratica quale era inizialmente apparso negli anni Novanta. La privatizzazione della politica avanza sotto l’illusione che il ricorso alle primarie riattivi nuove forme di partecipazione. Si dimentica la lezione proveniente, e non da ora, dagli Stati Uniti d’America. Già quindici anni fa Fareed Zakaria rilevava come a causare la morte dei partiti politici americani siano state le elezioni primarie: “i partiti esistono per competere nelle elezioni e una delle decisioni più importanti che un partito deve prendere riguarda proprio la scelta dei suoi candidati”. Spogliati di questa funzione, cosa resta loro? Una morte, quella dei partiti tramite primarie, che sa di suicidio.
Ciò detto, va sottolineato quanto l’elezione diretta dei sindaci abbia “ridato molto entusiasmo ai cittadini stanchi di essere estromessi dalle contrattazioni dei partiti”. Ha inoltre consentito l’emersione di nuovi leader, che poi dal piano locale sono ascesi talora anche a quello nazionale. Resta però un dato di fatto: l’indebolimento dei partiti ha comportato anche l’indebolimento di due delle loro funzioni principali, “quella di selezione del ceto politico e quella di elaborazione delle soluzioni politiche richieste”. Di nuovo: spostamento dei processi decisionali da luoghi fisici ben identificabili, seppure non sempre facilmente accessibili, ai “nonluoghi” della mediazione che si consuma spesso dietro le quinte tra i leader (con il loro entourage) e i mondi dei media e del denaro.
Gianluca Sacco, dal canto suo, apre qualche spiraglio alla speranza che la rete possa contribuire a creare nuove élite territoriali alternative al dominio di quelle finanziarie, globali e invisibili. Ma l’oscurità non è affatto diradata dai nuovi media, che socializzano quel che fonti non palesi irrorano abilmente con possibilità manipolatorie sconosciute in passato. La digitalizzazione della sfera pubblica, a mio avviso, crea più distorsioni che rischiaramenti nella mente del cittadino medio, e non necessariamente ne fa un elettore, tanto meno consapevole. Soprattutto rischia di favorire l’illusione che possano sorgere classi dirigenti alternative, mentre in realtà scaturiscono solo interpreti di copioni scritti da sceneggiatori che cavalcano la domanda del momento per arrotondare fatturati di imprese multimediali. “Nonluoghi” sono tutti quegli spazi in cui si coltiva appunto l’illusione di imparare l’arte del governo senza il cimento nell’agone pubblico, nel contatto quotidiano con persone e territori, e nel confronto-scontro con i rapporti di forza che costituiscono da sempre la realtà umana. Quest’ultima non tarda a prendersi le sue rivincite, e anche i movimenti nati in rete sono costretti presto ad abbandonare le nebbie del virtuale.
Nicola Genga e Marzia Maccaferri mostrano come Francia e Gran Bretagna siano tutt’altro che aliene dalle patologie del nostro sistema politico. Ad esempio, anche nel Regno Unito si registra una crisi dei tradizionali partiti di massa e l’emersione di fenomeni populisti consistenti, incarnati politicamente negli anni scorsi dallo Ukip di Nigel Farage e culminati con la vittoria referendaria della Brexit. Secondo Maccaferri può tornare utile la riflessione di Karl Popper, il quale addebitava addirittura a Platone un modo errato, e foriero di degenerazioni per la fisiologia democratica, di porre la domanda politica per eccellenza, quella per cui istituire i pubblici poteri e organizzarne l’esercizio. Non “come individuare i migliori” occorre chiedersi, ma piuttosto “come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno”. Agire per rispondere ad una simile domanda potrebbe essere ricetta ancora utile ed efficace per superare l’odierna crisi delle democrazie e curare i mali di cui stanno soffrendo?
Già vent’anni fa il caso francese veniva descritto da Maurice Duverger come quello di un sistema partitico fortemente segnato dalle dinamiche di presidenzializzazione e personalizzazione. La riduzione della durata del mandato presidenziale, da sette a cinque anni, avrebbe ulteriormente favorito dal 2002 la trasformazione dei partiti francesi in macchine a sostegno di leader “presidenziabili”. In qualche modo, insomma, il fenomeno Emmanuel Macron andrebbe inteso come un esito prevedibile piuttosto che come una sorpresa assoluta.
Il saggio conclusivo di Damiano De Rosa ci dice come nell’Unione Europea tutti questi mali si siano concentrati e irradiati, ma apre ad interessanti ipotesi di uscita dalla crisi proprio tramite i nuovi organismi comunitari. Per questo motivo dedico maggiore attenzione a quest’ultimo saggio. La sensazione è che a Bruxelles più che altrove si stia riproducendo un sistema rappresentativo di tipo elitario, se non censitario, simile a quello diffuso nel XIX secolo. L’élite burocratica e tecnocratica europea si forma secondo canali alternativi e paralleli a quelli di selezione delle classi dirigenti nazionali. Inoltre, nella cosiddetta “eurobubble”, torre d’avorio bruxellese, non filtra alcuna opinione pubblica, strumento di controllo minimo dell’esercizio di governo. De Rosa osserva come a Bruxelles, il centro del decision making europeo, si concentrino “ogni giorno migliaia di persone che rappresentano interessi”, e, tra queste, “quelle che solitamente prendono il sopravvento nel momento in cui i pensieri diventano deboli, poco praticati o, in generale, ‘poco di moda’: i lobbisti”. Nella Ue “lobby” non è una parolaccia, ma anzi “il fulcro di tutta una serie di attività”. Il problema è che le lobby si trovano ad interagire con élite sempre più autoreferenziali che, in aggiunta, operano sempre più a livello di organi intergovernativi a danno di quelli comunitari (Consiglio europeo invece che Commissione). Si tratta di una sorta di “federalismo tra esecutivi”, che assomiglia molto al nazionalismo rivendicato dalle forze “di destra” (e non solo) europee, oggi ribattezzate spesso come “populiste”.
Insomma, è la stessa Ue a tradurre nei fatti, nella sua prassi decisionale, il ritorno alla centralità degli interessi nazionali reclamata a gran voce dagli euroscettici. La differenza sta nel fatto che nel processo intergovernativo ad avere la meglio sono quasi sempre la Germania e i suoi alleati. E il vincolo europeo fa ricadere la scelta del più forte su tutti gli altri, meno forti. D’altronde la rappresentanza europea manca della doppia funzione che svolge nel governo rappresentativo nazionale: di rappresentanza della volontà dei cittadini e di designazione del governo. Secondo De Rosa, però, “proprio perché in Europa la rappresentanza non governa (né è in predicato di governare, neppure in vista dell’applicazione del Trattato di Lisbona, il quale ne conferma la natura non governativa), i partiti potrebbero avere una più ampia capacità di agire come soggetti ideologici, invece che come cinghie di trasmissione degli interessi”. A suo avviso, lo scarso credito dei partiti a livello nazionale sarebbe causato da un’erosione della loro funzione partecipativa “a scapito di quella governativa e istituzionale”. Non potendo in sede europea svolgere funzione di governo, avrebbero dunque la chance di “esercitare più intensamente la funzione rappresentativa delle idee dei cittadini”. Decisivo è il modo in cui si intende la parola “democrazia”. Se questa è il governo conforme alla volontà degli elettori, l’Ue non solo soffre di deficit democratico, ma è destinata ad implodere. Se, invece, per democrazia intendiamo “controllo e monitoraggio dei poteri costituiti allora non esiste alcun deficit democratico, poiché le funzioni di governo della Ue sono comunque limitate dagli attori nazionali (democraticamente legittimi), sicché sarebbe ridondante appesantire l’organizzazione continentale di un ulteriore livello politico-partitico”.
L’Ue da “nonluogo” potrebbe diventare luogo nuovo della organizzazione e decisione politica: “un organismo che si muove e vive su diversi livelli, per diversi gradi, con diversi attori; che prescinde e insieme include i meccanismi partitici nazionali; che usa gli stessi ruoli della rappresentanza tradizionale solo in apparenza”. Ed è qui che, anche per De Rosa, resta il lavoro da fare per incrementare la legittimità delle istituzioni europee. I protagonisti dei “nonluoghi” bruxellesi sono i lobbisti, attori che sono intorno e non dentro ai partiti, che sono vicino ma non dentro alle istituzioni comunitarie. Entità che “non possono prescindere dai luoghi tradizionali e dai tradizionali riti, e tuttavia li utilizzano allo scopo di svolgere delle mansioni sempre più trasversali e opache, che rimettono in discussione le tradizionali categorie di pubblico e privato, di stato e di regione, di globale e di locale, di istituzionale e non istituzionale, di formale e informale”. E, soprattutto, di economico e politico. Senza un minimo di autonomia della politica, cosa resta di essa? È sufficiente evocare il bisogno di nuove classi dirigenti all’altezza di tal nome e, soprattutto, delle sfide che la globalizzazione finanziaria e tecnologica ha ormai posto da tempo? Possono volontà di singoli e gruppi, più o meno piccoli, invertire i processi in atto di subordinazione del politico all’economico?
Sul piano nazionale, delle singole statualità, il tentativo è in atto da qualche tempo, in modo crescente e sempre più diffuso, sfruttando i tradizionali canali della rappresentanza democratica. Resta da capire se l’Ue sia l’ibrido che consente questo riequilibrio tra il politico e l’economico, oppure sia costruzione atta soltanto al primato del secondo sul primo. Sciogliere questo interrogativo sarà il compito della politica di stati come Germania, Francia e Italia per i prossimi cinque, o al massimo dieci anni.