Raschiare il cranio da parte a parte,
giustiziandomi,
rendermi giustizia, eliminandomi
questo vuole il tarlo delle notti;
chissà se il cuscino è la sua grotta
da cui esce come Ciclope
ogni volta per farmi dire il mio nulla.
Così mi parlò la dolce fanciulla
che fra volpi e leoni abitava al mattino
e incontrava a colazione un netturbino
che spazzava lo sporco delle sue notti
ogni giorno, dopo il cappuccino.
Mi disse poi del rito quotidiano del congedo:
era bello sognare per tredici minuti,
giusto il tempo di smaltire quei cordiali saluti
dati sempre nella speranza che un bacio
rendesse le sue labbra fiori sbocciati
trasportasse il suo dire oltre il nulla,
che finalmente udire il suo amore potesse
e la primavera le svaporasse l’infanzia
protratta oltre la soglia del suo seno
su cui si fermava quella bomba di cuore
che sembra ora esploda, poi non esplode
insomma, fa sempre cilecca – confessò.
Il netturbino era uno di quelli che al silenzio
rispondeva con altrettanto silenzio, più cupo
perché credeva di esserle soltanto utile,
un ancoraggio fra mille tempeste di voci
le solite che le assediavano il letto, il cuscino;
ma quelle lenzuola, invece, solcate sognava
da gambe, da braccia, da strette avvampate
perché quel congegno nel petto innescasse
perché non altro che vapore di lei restasse
quel tanto da inscriverla fra le nubi del cielo.
E se un abbraccio, fra gli altri, avesse ecceduto
lei stavolta sapeva che ogni fiamma è da amare
se la cenere che resta dal netturbino è raccolta.
[da Cicatrici e altre incarnazioni, WIP Edizioni, Bari 2015, pp. 47-48]
La fanciulla e il netturbino tra cranio e cuscino – Versione audio: