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Sulle stragi di Parigi: un confronto tra Dino Cofrancesco e Pietro Grilli di Cortona

Je ne suis pas Charlie e spiego perché
di Dino Cofrancesco

Come capita spesso, negli anni difficili e incerti che stiamo vivendo, ogni fatto di sangue che abbia qualche rapporto col fondamentalismo religioso, fa nascere come funghi dopo i temporali estivi centinaia di sociologi e filosofi della religione che ci spiegano—ovviamente spesso, ma non sempre, citando solo gli esperti in materia di cui si fidano, tra i mille che hanno trattato il tema di cui hanno deciso di occuparsi—come e perché la barbarie sia ricomparsa nel nostro mondo nonostante i secoli di civiltà greco-romana, cristiana e illuministica. Siamo sempre ai soliti “brevi cenni sulle origini dell’universo”. L’ultima, efferata, strage nella redazione di Charlie Hebdo, ha dato di nuovo la stura a cori di esecrazioni, di ferme condanne, di richiami ai grandi valori dell’Occidente calpestati da fanatici islamisti. Un giornalista del “Financial Times” si è visto quasi messo alla porta per aver scritto un articolo che, decisamente, costituiva una nota stonata rispetto alle voci angeliche dei benpensanti.
Non vorrei essere equivocato, anche per me il delitto di Parigi è odioso e, se dipendesse da me, non concederei agli autori alcuna attenuante anzi, per stragi di questo tipo, sarei quasi tentato di ripescare dai sotterranei della storia la vecchia invenzione del dr. Guillotin (perfezionata, come si sa, dalla sua vittima più illustre Luigi XVI). Ciò premesso, non mi si chieda di mettermi al collo un cartello con la scritta Je suis Charlie Hebdo, giacché le vignette oggettivamente irrispettose sul profeta e su Allah mi sono parse, detto con franchezza, discutibili se non riprovevoli. Se un gruppo estremista facesse saltare in aria l’aula in cui si riuniscono Robert Faurisson, David Irving e altri negazionisti e simpatizzanti alla Noam Chomsky, sarei stato altrettanto reciso nel condannare (e nell’esigere la pena capitale per) gli attentatori, ma non sarei tentato di esporre un cartello con le parole I am David Irving.
La saggezza dell’Occidente liberale sta proprio in questo, nella separazione tra colpa (contro i ‘costumi’ vigenti in una società), peccato (contro Dio) e reato (violazione del codice penale). Il diritto di ciascuno di scrivere o di disegnare tutto quello che gli passa per la mente è, in linea teorica, assoluto e indisponibile, anche se offende la morale e dispiace a Dio. Resta il fatto, però, che come tutti gli altri diritti e come tutte le libertà, anche il diritto di esprimersi liberamente può e deve essere limitato ogni volta che il suo esercizio può essere di nocumento al prossimo. Il diritto di proprietà, ad esempio, non può tradursi nel trattamento iniquo e crudele del proprio animale né rendere lecito l’erezione di un muro di cinta, sul mio terreno, che tolga aria e luce al vicino. La libertà di parola non può autorizzare l’oltraggio a una religione seguita da migliaia di nostri connazionali. Se a qualcuno venisse voglia di scrivere una commedia satirica sugli amori sodomitici tra Cristo e il cugino Giovanni (Battista) o sui rapporti lesbici tra la figlia di Anna e Maria Maddalena, il divieto di rappresentarla in luogo pubblico, difficilmente farebbe insorgere folle indignate dalla repressione contro il prefetto liberticida.
Lo stato laico — l’unico in cui mi sento sicuro — può addurre una sola giustificazione alla censura preventiva: l’alta probabilità che l’opera censurata scateni, tra i credenti, reazioni non facilmente controllabili e che i disordini lascino sulle piazze centinaia di vittime. I contenuti del testo — libro, commedia, film, vignetta — di cui si impone il ritiro dal mercato non debbono interessare minimamente le autorità. Nel chiuso delle pareti domestiche o di un club di eccentrici, il porno-vangelo può essere replicato ad libitum ma autorizzarne la rappresentazione a teatro o in tv potrebbe significare venir meno ai compiti dello Stato che, per Hobbes come per i liberali classici, deve occuparsi solo delle “azioni esterne” e delle loro probabili ricadute sulla “pace sociale”…
Sarebbe auspicabile, lo ammetto volentieri, che non ci fosse alcun bisogno di censura, bastando al mantenimento della quiete pubblica buon gusto e autocontrollo ovvero la disposizione mentale a non superare certe soglie, in nome del rispetto per quanti condividono “l’errore del volgo” ovvero la fede in Dio e l’ossequio alle autorità religiose. Sennonché, nella fattispecie, come mi è stato fatto notare da un’acuta filosofa morale: “aumenta davvero la mia libertà poter disegnare, puta caso, una vignetta in cui il Profeta fornica con una scrofa?”. In nome della libertà libertaria, un vignettista è autorizzato a rivendicare anche il diritto al cattivo gusto, al sarcasmo gratuito, al dileggio delle illusioni altrui sull’aldilà etc. Uno Stato non può entrare nel merito dell’estetica (il cattivo gusto che rivela la vignetta) né della morale (l’irrisione delle ‘anime devote’ che è una ‘cattiva azione’) ma non può — ribadisco — disinteressarsi delle cause di probabile turbamento dei rapporti sociali.
Personalmente, ho molte riserve sulle “società multiculturali”, ritengo la “tolleranza” e il dialogo tra le culture mera e, in molti casi, insopportabile retorica buonista. La rimozione dei crocifissi dalle scuole, pur non essendo un credente, m’indigna perché il simbolo della Croce rinvia a una nostra identità culturale profonda — quella cui accennava Benedetto Croce in Perché non possiamo non dirci cristiani; se fossi direttore di una struttura scolastica metterei alla porta i genitori non cristiani che mi chiedessero di rinunciare al presepio e all’albero di Natale; e, infine, se vivessi in California insorgerei contro gli ispano-americani che nei programmi scolastici vorrebbero eliminare lo studio della grande letteratura inglese ed europea, perché profondamente estranea al loro vissuto storico. La via scelta dall’Europa, però, non sembra essere la difesa intransigente delle proprie radici ma l’apertura alle più diverse culture: è una via difficile – e, forse, intimamente cristiana e bergogliesca – ma che comporta un ripensamento (sia pure relativo) di gran parte della nostra vita di relazione, delle sfere di liceità, dell’elenco delle cose permesse e di quelle vietate o per lo meno “inopportune”. Non si può sbandierare il multiculturalismo solo come ariete contro le mura del mondo borghese — per choccare i ‘benpensanti’ mostrando come i loro ‘valori’ non siano affatto gli unici né i migliori – e poi mollarlo quando non torna più comodo; non si può invitare ogni cinque minuti al dialogo e alla reciproca comprensione tra le diverse etnie e poi restare indifferenti quando vengono offese nelle loro identità religiose più intime. Se giustamente non consentiamo alle donne arabe e maghrebine, in luogo pubblico, il burqa integrale e togliamo all’autorità paterna il potere tribale su figli e, soprattutto, figlie (ma nella civilissima Olanda ci sono stati tribunali disposti a riconoscere, senza vergogna, la sharia, e questo nella patria di Grozio, di Erasmo, di Spinoza!), non dovrebbe essere equo, in compenso, tutelare le minoranze religiose islamiche limitando (almeno per un certo tempo) le libertà di espressione di vignettisti incoscienti e facendo valere l’etica della responsabilità ovvero delle conseguenze alle quali va incontro un agire non ponderato?
Quando si leggono parole vibranti di indignazione come “e ora non ci si venga a dire che i vignettisti di Charlie Hebdo se la sono cercata” si rimane molto perplessi giacché un conto è la condanna più inflessibile dei loro assassini (ai quali, per la gravità del gesto, non si può concedere alcuna attenuante), un conto ben diverso è riconoscere che una “provocazione” oggettivamente c’è stata — anche se, in una società aperta senza problemi di forti minoranze culturali, la provocazione è, semmai, un’offesa al buon gusto ma non una violazione della legge. Indigna il commento di un noto e spregiudicato leader democristiano che commentò la notizia dell’omicidio di chi aveva denunciato loschi affari bancari, con una battuta vergognosa: “se l’è cercata!”, ma non può scandalizzare l’osservazione di buon senso dell’uomo della strada: “ma perché quelli di Charlie Hebdo hanno dovuto irritare una minoranza religiosa particolarmente suscettibile?”. I killer di Ambrosoli hanno ucciso un uomo che aveva il “senso dello Stato” e si batteva contro pericolosi malfattori protetti dalla classe politica, i killer algerini hanno spedito nel mondo dei più dei giornalisti fermamente intenzionati, avvalendosi dei loro “diritti soggettivi”, a disegnare le loro vignette satiriche a costo di offendere non solo i loro spietati esecutori ma anche tutti quegli islamici miti e perbene, che come noi, esecrano la violenza ma si dolgono— appartenendo, appunto, ad un’altra cultura che non tollera la satira su certi temi — della mancanza di rispetto per la loro religione (il mio simpatico verduraio marocchino, pur sconvolto come me dai fatti di Parigi, mi faceva rilevare, con accenti dolenti, che nel mondo musulmano nessuno si permetterebbe di offendere i simboli cristiani).
L’ideologia dell’ospitalità indiscriminata per tutti gli extracomunitari non è nelle mie corde ma una volta che milioni di maomettani sono stati accolti in Europa sicché possono circolare liberamente in lungo e in largo, non si è poi obbligati a difendere gli autori di satire irriverenti dal risentimento dei fedeli scandalizzati dalla loro empietà? E tale difesa non comporta costi spaventosi a cominciare da un reclutamento di vigili e poliziotti, addetti alla protezione dei “liberi pensatori”, cinquanta, cento volte superiore a quello attuale? Vogliamo instaurare (paradossalmente) uno stato di polizia per fronteggiare la criminalità religiosa? O, per evitare tutto questo, pensiamo di sradicare e secolarizzare a colpi di frusta (e non solo simbolica) quanti non accettano il principio che il diritto deve proteggere sia chi ci piace sia chi non ci piace?
Separare l’etica dalla politica, dal diritto, dalla religione non è possibile, per i non occidentali, almeno nel breve arco di poche generazioni – e per molti occidentali è difficile anche oggi. E allora cosa resta da fare se non rispolverare, togliendola dagli armadi della storia, la “civiltà delle buone maniere”? Mi riferisco, ovviamente, a quel tanto disprezzato galateo borghese che impediva di “parlare di corda in casa dell’impiccato” e che ancora adesso ci rende antipatico, in un tour turistico, il compagno di viaggio ateo che vuol convincere quello credente che l’aldilà è una frottola inventata dai preti per i gonzi come lui.
La nostra comunità politica è come una comitiva allargata in cammino verso il futuro: forse sarebbe stato meglio non far salire a bordo tante persone così diverse da noi ma ora che ci sono dobbiamo “contenerci”, autocensurarci, abituarci a non esternare le nostre opinioni quando sappiamo con certezza che esse possono ferire i nostri vicini e determinare risentimenti rabbiosi. La libertà liberale non è la libertà libertaria, non segue il principio fiat ius, pereat mundus (il che significa che se ho voglia di scrivere che Maometto era un farabutto sanguinario nessuno me lo può impedire: faccio quel che mi sento di fare e avvenga quel che può) ma guarda alla concretezza delle relazioni sociali, è flessibile e realistica, sposta sempre più in là i confini del lecito ma non abbatte tutti i recinti per consentire ai nostri istinti di scorrazzare negli spazi infiniti della prateria sociale. Il consequenzialismo razionalistico — che ama la teoria del piano inclinato: se si fa un passo indietro oggi, non si sa dove finiremo per trovarci domani — è libertario non liberale e ne costituisce una riprova convincente il fatto che i libertari, che preferiscono da qualche tempo definirsi liberali, sempre delle ombre, delle “contraddizioni” nei liberali classici, accusati di “fermarsi a un certo punto” e di non avere il coraggio di andare oltre. Sennonché quel sapersi “fermare a un certo punto” è proprio il segno inequivocabile del loro liberalismo non taroccato dei Padri Fondatori della società aperta — un liberalismo, va aggiunto, spesso unito alla consapevolezza che altre generazioni, semmai, andranno oltre….
C’è un tormentone che ritorna in questi giorni e ci rintronerà a lungo nelle orecchie: “La violenza è iscritta nel DNA della legge coranica?” e, ancora, “potrà mai accettare l’Islam le regole della democrazia liberale?”. Domande inutili giacché non esiste l’Islam ma esistono gli islamici, appartenenti a popoli diversi tra loro, che nella storia passata hanno creato grandissime civiltà (Cordoba, Granada, Baghdad, Damasco etc.. ) e, al presente, annoverano tra le loro file, minoranze sanguinarie e spietate come Boko Haram. Chi interpreta più fedelmente il Corano, i discendenti di Avicenna e di Averroè, “che ‘l gran Comento feo” o l’Isis che intende restaurare il Grande Califfato, massacrando — è cronaca recente — duemila nigeriani? È come chiedersi se sia più fedele a Pietro l’Inquisizione o la famiglia francescana. In realtà, sono le istituzioni che incanalano passioni e credenze religiose o semplicemente ideologiche in una direzione piuttosto che in un’altra. Le istituzioni sono un filtro che trattiene solo i materiali spirituali che ritengono utili ai loro fini, lasciando defluire (e perdersi) le scorie inservibili. È a cose fatte che si vede se una fede (trascendente o immanente) ha contribuito, e in quale misura, a fondare una convivenza abbastanza civile e sopportabile. I rapporti tra ‘pensiero’ e ‘azione’ non sono così evidenti e decifrabili come si pensa.
Lungi dal portare acqua al mulino buonista, queste brevi considerazioni vogliono essere proprio il contrario, un invito al realismo e alla lucidità. Il “politicamente corretto” ha fatto già tanti guai all’Europa e dopo i fatti di Parigi sarebbe meglio metterlo definitivamente in soffitta. Nel nostro paese, per tanto tempo, esso impedì di chiamare “comunisti” i combattenti delle brigate rosse, oggi mette al bando – “ce lo chiede l’Europa” – l’espressione “terroristi islamici”, nel tentativo di convincerci che quanti fanno saltare o si fanno saltare in aria al grido di “Allah u Akbar!” bestemmiano il Grande Misericordioso perché “Il Corano” condanna ogni tipo di violenza. Si dimentica, forse, che ridurre a esaltati dementi i propri nemici irriducibili significa ripercorrere le vie dei regimi totalitari che non riuscivano a riconoscere agli oppositori alcuna dignità etico-politica ma ne degradavano l’ideologia a malattia mentale.
Islamici sono sia i credenti che chiamiamo “moderati” sia i credenti che vorremmo vedere condannati a pene esemplari: forse abbiamo avuto il compito di stabilire chi ha diritto a fregiarsi del nome “musulmano” e chi non lo ha? Probabilmente, ma qui mi avventuro in campi che non sono di mia competenza, hanno ragione gli uni e gli altri, in quanto entrambi si rifanno a diverse tradizioni e interpretazioni della parola divina, delle quali, non avendo la linea diretta con l’Onnipotente, ci è impossibile individuare quella “autorizzata” dall’alto. Del resto, nella stessa religione cristiana, c’è il santo che “negli sterpi eretici percosse” e c’è l’altro che operò “tutto serafico in ardore”. Erano più in linea con gli insegnamenti della Santa Madre Chiesa Cattolica Romana Apostolica gli sterminatori degli Albigesi o i fraticelli che parlavano agli uccelli e ammansivano i lupi d’Agobbio? Il fatto che ci siano più simpatici e congeniali i secondi non ci conferisce certo la qualifica di teologi né a dare patenti di ortodossia. In ogni caso, per noi comuni cittadini, contano i comportamenti civici, il rispetto delle regole, la disposizione a “integrarsi”: le motivazioni ideali che ispirano quei comportamenti non sono affar nostro.
Non esito a credere che l’interiorizzazione dei principi che stanno a fondamento della democrazia liberale sia più difficile per gli islamici di quanto non lo sia stata per i cristiani. La ragione, però, a mio avviso, sta in un contesto storico che anche per il mondo musulmano conferma la crucialità dal fattore istituzionale: nel mondo maomettano, la comunità dei credenti non era un contropotere, come in Occidente la Chiesa, ma la fonte sacra della legittimità politica, la base sociale di una vera e propria democrazia religiosa: è mancato, al di là del Mediterraneo, lo stato laico in grado di imporre la sua autorità contenendo le pretese della religione e garantendo un ordine “esterno” al riparo dalle sue pretese egemoniche. La secolarizzazione politica — ovvero l’emancipazione del potere laico da quello religioso, in virtù di un’interpretazione dubbia del “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” è stata la matrice dell’individualismo dei moderni e dall’individualismo dei moderni sono nate le libertà civili e quelle politiche. Nell’importante film Il destino (1997) dell’egiziano Yusuf Shahin, il califfo di Cordoba al Mansour non riesce a salvare, nel 1195, dalla ferocia delle masse fondamentaliste il filosofo Averroè accusato di empietà: se il grande al Mansour avesse avuto il potere lasciato da Richelieu a Luigi XIV, il musulmano Averroè non sarebbe fuggito in Egitto ma avrebbe fondato l’Accademia delle Scienze Al-Andalus.

REPLICA di Pietro Grilli di Cortona

Caro Dino,
concordo su molte tue affermazioni, meno su altre. Non ho quasi mai condiviso le vignette satiriche di Charlie Hebdo e ho espresso questa mia convinzione ignorando la rivista e non comprandola. Non ho però neanche mai condiviso la persecuzione dei reati di opinione, sia che si trattasse di David Irving e dei negazionisti, sia di quelle frange di invasati che continuano ad adorare Stalin o Hitler e che ogni tanto celebrano perfino dei congressi e dispensano interviste. Il mondo è pieno di “folli frange marginali” (come le chiamava Almond), di pazzoidi, provocatori, gente alla ricerca di visibilità attraverso la strategia di chi la spara più grossa (ricordi tutte le teorie cospirative sull’attacco alle torri gemelle?). Preferisco di gran lunga uno Stato che ignora e tollera queste manifestazioni di idee (con tutti i limiti del caso, ovviamente, stabiliti dal codice penale) rispetto a uno Stato che si assume il compito (sempre arbitrario) di perseguire pazzi, estremisti e provocatori sulla base di principi di etica e di buon gusto: chi decide chi è pazzo e provocatore? E siamo sicuri che il buon gusto debba essere tutelato da un’autorità politica? Questo è il punto. Tra l’altro la rivista ha pubblicato in passato vignette offensive verso il cristianesimo (alcune, devo dire, di pessimo gusto) e nessuno, in nome dello Stato laico (nel quale anch’io mi sento più a mio agio), si è mai sognato di denunciarli o perseguitarli. Al massimo, qualche vescovo ha espresso (peraltro, del tutto legittimamente) condanna e indignazione. E, devo dire, anche in questi casi estremi un sorriso la satira lo può sempre strappare, sarà forse perché sono fiorentino…
Anch’io sono sempre stato contrario al multiculturalismo: l’idea di una società a compartimenti stagni, in cui ogni comunità vive secondo i suoi valori, la sua cultura e le sue norme è un progetto ormai fallito (e bene fece Sartori a rilevarlo anni fa), in cui continuano a credere solo quegli ingenui che pensano che più ci si frequenta e ci si conosce e più si diventa amici e ci si vuole bene: purtroppo, come scriveva Waltz, spesso è esattamente il contrario e più ci si conosce, più si diventa incompatibili. Non ritengo si debba essere contro o a favore dell’immigrazione. L’immigrazione c’è, è come un qualsiasi evento meteorologico, non la possiamo evitare e secondo me non la possiamo neanche “governare” (come fai quando arrivano a migliaia, spesso privi di documenti?). È causata da fattori che noi non controlliamo: la globalizzazione, la crescita di consapevolezza delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo, il movimento dei rifugiati, lo sviluppo delle comunicazioni, le differenze fra paesi ricchi e poveri, il fatto che da noi nessuno vuole più svolgere certi lavori (anch’io ho un verduraio egiziano e ben pochi italiani, ormai, sarebbero più disposti a fare la vita che fa lui, alzandosi tutte le mattine alle 04,00 per prendere la merce ai mercati e tenere il negozio aperto fino alle 21,00). Tuttavia, ritengo che chi emigra in un paese, deve accettarne le norme e i valori. Fino ad un certo punto possiamo aiutarlo a integrarsi: costruiamogli pure qualche Moschea, diamogli pure (dopo un po’ di anni e in presenza di certe garanzie) la cittadinanza, ma non possiamo certo consentirgli di avere più mogli o di trattare le donne come esseri inferiori, perché questo va contro la nostra tradizione giuridica, etica e culturale. E non possiamo neanche rinunciare alle nostre tradizioni di libertà (che peraltro noi stessi troppo spesso mettiamo in dubbio e in pericolo, ma questo è un altro discorso). Alcuni limiti sono invalicabili. E mi stupisco che tu condivida l’idea che nei paesi islamici non si offendano mai i valori della cristianità. Non è vero: la tolleranza verso gli islamici in Occidente non è neanche paragonabile alla tolleranza verso i cristiani nei paesi musulmani, neanche in Turchia, che pure è ancora (non so per quanto) uno dei paesi islamici più secolarizzati. Gli occidentali, anziché continuare a fustigarsi e a vivere un permanente senso di auto-colpevolizzazione su tutto verso tutti gli altri popoli, dovrebbero andare orgogliosi dei valori che hanno contribuito a diffondere e ricordarsi un po’ più spesso che i cristiani sono, in questa fase storica, i più perseguitati nel mondo.
Resto convinto che se un islamico viene a vivere in Italia, deve imparare a sopportare anche riviste come Charlie Hebdo (mi pare che concordi con me). Non sta a lui dettarci nuove regole e una nuova agenda su ciò che è lecito e illecito. E’ per questo che, dopo l’odioso attentato di Parigi, pur non avendo – come te – niente a che vedere con la rivista, non ho nessuna remora (al contrario di te) ad attaccarmi al collo il cartello “Je suis Charlie Hebdo”. Perché dobbiamo essere tolleranti quando si offendono i valori cristiani e cattolici ed essere cauti e prudenti, invece, quando si prende in giro il Profeta? Per il resto concordo con te: un po’ di autocensura, di senso del limite, di sensibilità e (perché no?) anche di rispetto per i valori degli altri sarebbero auspicabili, ma guai affidare allo Stato la tutela di questi principi! Sia chiaro, so bene che questa è una deriva che ormai in Occidente si è imboccata da tempo, e non certo per colpa degli islamici. Considero, infatti, una iattura il reato di razzismo, così come quello di negazionismo di ogni ordine e grado (in Francia esiste perfino a proposito della strage degli armeni…). Per me mandare in galera qualcuno, perché ha espresso un’opinione che non danneggia nessuno, è pericoloso perché non si sa dove si va a finire.
Un’ultima osservazione che vuole essere un invito e un auspicio. Evitiamo l’uso (e soprattutto l’abuso) del concetto di provocazione: può essere utilizzato (e in passato è stato fatto molto spesso) contro qualsiasi manifestazione di idee contrarie alle nostre. E non mi piace.
Ah, dimenticavo: il mio verduraio egiziano ha esposto fuori dal negozio un cartello con scritto “Je suis Charlie Hebdo”, anche in lingua araba. Gli ho fatto i complimenti.
Come vedi, concordo su molte delle cose che hai scritto.