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Chiesa e ricchezza: alle origini di un rapporto ambivalente

recensione a: Peter Brown, Per la cruna di un ago. La ricchezza, la caduta di Roma e lo sviluppo del cristianesimo, 350-550 d.C., Einaudi, Torino 2014, pp. XXX–866, € 36.

Questo libro affronta un grande tema per la storia dell’intero Occidente: il rapporto fra chiese cristiane e ricchezza. Ne esamina la genesi, muovendosi nell’arco di due secoli cruciali, i cui termini di partenza (350 d.C.) e di arrivo (550 d.C.) sono solo convenzionali, dunque mobili e suscettibili di sconfinamenti. Vasta è pure l’area geografica nell’ambito della quale Peter Brown, professore emerito presso la Princeton University e autorevole storico della tarda antichità romana e dei primi secoli della Chiesa cristiana, conduce questa ampia e approfondita ricerca alle origini di uno dei grandi paradossi della storia dell’Occidente. Circoscrivendo l’analisi per lo più ad una regione, comunque assai vasta, corrispondente all’Occidente romano (dai Balcani occidentali alla Britannia e da Treviri ai margini del Sahara), Brown scrive una nuova storia economica del cristianesimo e della Chiesa delle origini.

Il grande, epocale e tuttora irrisolto paradosso di cui si diceva è il seguente: da un lato, la Chiesa cristiana si edifica su testi sacri che condannano la ricchezza e i beni materiali di questo mondo, invitando con forza alla rinuncia, al dono e alla povertà; dall’altro lato, a Roma prende vita una struttura che si irradierà su quasi l’intero territorio un tempo dominato dall’impero dei Cesari diventando una delle più formidabili potenze economico-finanziarie della storia, non solo occidentale. L’esame per aree geografiche è indicato sin dall’inizio da Brown come necessaria precauzione metodologica, dal momento che l’impero romano era composto da regioni con caratteristiche talora anche molto diverse le une dalle altre. Ne consegue che anche la storia della Chiesa va declinata, in particolare al suo sorgere, come storia delle chiese cristiane nelle diverse regioni di un impero che peraltro, proprio nel corso di quei secoli, era andato, o stava andando, in frantumi.

Come scrive lo stesso Brown, “le chiese regionali dell’Occidente mantennero ciascuna il proprio ritmo” nell’evoluzione della loro struttura e influenza sui territori nei quali si ritrovarono a predicare e operare nell’ultimo secolo prima del crollo dell’impero romano e nel primo secolo successivo ad esso. Una regionalizzazione della storia della Chiesa che andrebbe mantenuta anche nel periodo successivo a quello tardoromano, se si vuole comprenderne appieno le dinamiche di sviluppo e consolidamento. Ovviamente le fonti di cui lo studioso può avvalersi non sono molte, specialmente quelle scritte, che pertanto vanno affiancate da reperti archeologici e testimonianze successive. Molto si può comunque ricavare concentrandosi su singole figure di futuri Padri della Chiesa come Ambrogio, Girolamo e Agostino, oppure su personaggi “pagani” o eretici cristiani rispetto all’ortodossia che proprio allora cominciò a prendere forma (ad esempio, Pelagio).

Qui Brown fa esplicitamente propria l’indicazione di metodo a suo tempo raccomandata dallo storico francese Louis Gernet, celebre studioso della religione greca: “Un’élite non inventa. Essa rende esplicito ciò che molti altri pensano”. Un tema come quello della ricchezza nelle chiese cristiane si presterebbe, secondo Brown, a una indicazione di tal genere: élite e popolo dei fedeli sarebbero sotto questo aspetto in stretta connessione, condividendo opinioni e consuetudini. In tal modo lo storico di Princeton ha ritenuto di poter ovviare correttamente alla inevitabile lacunosità e frammentarietà delle fonti attualmente a disposizione su questo preciso periodo storico.
Il tema divenne problema fra il IV e il V secolo d.C., quando i primi veri ricchi entrarono nelle chiese, o chiesero di poterlo fare. Allora il monito, dal sapore di sfida impossibile, lanciato dallo stesso Gesù Cristo al giovane ricco tornò a risuonare in tutta la sua potenza, dall’eco non esauritosi ancora oggi. Recita infatti il Vangelo secondo Matteo (19,24): “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”.

Quella descritta con grande accuratezza e ricchezza di dettagli da Brown è la storia di una serie di compromessi con il “mondo” (ossia con le norme della società romana) e di eccezioni rispetto all’insegnamento evangelico. Non potendo i più passare dalla cruna di un ago, molti vescovi non allontanarono i ricchi dalla comunità cristiana ma proposero loro alternative che contribuirono nel giro di pochi secoli, talvolta persino pochi decenni, all’enorme ricchezza delle chiese: elemosine, costruzione di chiese, raccolte di fondi, lasciti testamentari. Ma Brown non intende avallare quel che appare una lettura del rapporto fra Chiesa e ricchezza secondo le lenti del radicalismo cristiano, ossia come una sorta di tradimento dell’istituzione, sempre più secolarizzatasi, rispetto al messaggio ideale originario. In altri termini, Brown deplora il fatto che si continui ancora oggi a leggere la storia di quel rapporto secondo l’ottica ascetica e i toni di un san Girolamo, ad esempio, per il quale lo sviluppo della Chiesa non sarebbe altro che una storia di progressiva decadenza morale.

Giotto (attribuito), Sogno di Innocenzo III (1295-1299 ca.)

Non si possono e non si debbono invece sottovalutare le credenze e i convincimenti più profondi dell’epoca, diffusi e radicati tra i fedeli. Ad esempio, “si immaginava che la ricchezza salisse dalla terra al cielo anche attraverso l’atto prosaico di una pia offerta, e questo, per i credenti cristiani, era altrettanto importante quanto l’atto di rinuncia totale ai propri beni che occasionalmente avveniva tra pochi eletti”. Brown invita pertanto a non valutare pratiche diffuse a quel tempo con la lente filosofica moderna, se non postmoderna, del sospetto e del retro-pensiero, per cui tutto ciò che non è preso e applicato alla lettera, o nel modo più estremo e radicale, non può che essere falso e incoerente. Lo sguardo dello storico sa spogliarsi di una simile lente.

La Chiesa cristiana, cresciuta a lungo come pluralità di chiese sparse su un immenso territorio, profondamente differente per clima, usi e costumi, poté espandersi e infine risultare la sola struttura solida e capace di orientare e motivare grandi masse di persone proprio grazie ad una considerazione più duttile della natura e dell’uso della ricchezza. Più duttile, non più spregiudicata, o almeno non subito e non sempre. Si iniziò con offerte religiose su scala modesta, come ad Aquileia agli inizi del IV secolo e sul sagrato delle chiese del Nord Italia nei decenni successivi, per poi finire nel VI secolo con le grandi opere architettoniche dei santuari della Gallia e dell’Italia. In altri termini, Brown ritiene che il mutamento importante prodottosi nella Chiesa al momento del suo “decollo”, ovvero agli esordi della sua espansione, sia avvenuto proprio a livello di immaginario legato alle offerte religiose, mutamento che ha consentito l’avvicinarsi ad essa di un mondo di proprietari e di ceti agiati, e più in generale delle classi medie delle città dell’Occidente tardoromano. Non sempre tale avvicinamento avvenne per effetto della perdita o della drastica riduzione di prestigio e di solide prospettive, non solo materiali ma anche esistenziali, seguite alle prime invasioni barbariche.

La società romana occidentale non era contraddistinta dal predominio di pochi grandi proprietari terrieri, e le future fortune, economiche e politiche, del cristianesimo e delle sue chiese derivarono proprio dalla capacità di attrarre e accogliere con i propri messaggi gli appartenenti alla piccola nobiltà di Roma e delle province. Questa svolse un ruolo cruciale nella costruzione delle chiese e nelle donazioni di patrimoni e proprietà varie che crebbero in numero crescente a partire dagli ultimi tre decenni del IV secolo. Nella ricostruzione delle diverse fasi di questa storia Brown è stato aiutato in modo particolare dalle più recenti ricerche archeologiche, le quali hanno posto sotto una nuova e diversa luce la vita quotidiana dei primi cristiani e l’effettiva natura e finalità delle loro concrete pratiche di devozione.

Combinando così lo studio della religione, anche nella sua versione più “alta”, quella delle controversie teologiche e dottrinarie, con lo studio della cosiddetta “cultura materiale” (iscrizioni, graffiti, scavi, modelli di mappatura delle attività commerciali basati sulla distinzione dei reperti ceramici), è possibile raggiungere un maggiore e migliore grado di approssimazione alla storia della ricchezza nel cristianesimo. È la storia dell’affermarsi, tutt’altro che pacifico e incontrastato, tanto nel concetto quanto nella prassi, dell’obbligo di un corretto uso delle ricchezze terrene, secondo cui le donazioni e i lasciti testamentari rappresentavano un atto di profonda e coerente devozione cristiana. Si pensava che le pie offerte fatte a beneficio della Chiesa avrebbero consentito “di collegare il mondo terreno a un mondo sconfinato al di là delle stelle”. Cielo e terra venivano ricongiunti da una pratica ritualizzata e perfino giuridicizzata. Non mancarono forti resistenze e ci furono polemiche a non finire, con vescovi e predicatori come Ambrogio, Girolamo, Agostino, Paolino di Nola e i sostenitori di Pelagio. Una tradizione ascetica e pauperistica, quest’ultima, che sarebbe proseguita nei secoli.

In ogni caso, ben più che un semplice e immediato risultato della “conversione” di Costantino (attorno al 312 d.C.), si può sostenere con maggior fondatezza che fu sulle basi di questo autentico “senso comune”, di questo modo sempre più diffuso e radicato di pensare e vivere la propria mortalità, che si costruì intorno al crollo dell’impero romano d’Occidente la plurisecolare potenza temporale della Chiesa cattolica apostolica romana. Un “senso comune” che sarebbe perdurato come scontata visione delle cose fino a tutto il Medioevo. Non senza però che si inglobasse un paradosso, una contraddizione interna, quella sul senso della propria missione e sulla coerenza fra ideali di povertà e pratiche di ricchezza, a causa della quale si sono prodotte crisi periodiche all’interno della Chiesa. Crisi giunte fino ai giorni nostri, talora anche gravissime, mai però tali da decretare il crollo e la fine della più longeva e influente istituzione dell’Occidente.

L’imperatore Costantino offre al papa Silvestro I la tiara imperiale, simbolo del potere temporale (1248)