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Un giorno d’inverno, a Venezia

Niente libri, niente recensioni. Tutto rinviato ad una prossima volta. Oggi voglio parlare di una strana forma di letteratura e poesia fatta di pietre che affondano nell’acqua. Affondano non solo perché fondamenta di case, palazzi e chiese, ma anche perché sprofondano ogni giorno, ogni giorno un po’ di più.
La laguna è lo specchio di una lenta agonia che a poco a poco consuma i fianchi e il volto di una donna comunque ancora troppo bella. La morte non turba la bellezza, anzi potrei dire che il bello rifulge in tutto il suo splendore e stupore proprio al limitare dell’abisso. Proprio lì, al confine tra vita e morte, tu puoi cogliere il fiore della bellezza, che si sa, già lo diceva Platone, è fuggevole.
Gli antichi Greci usavano un termine per descrivere la natura di ciò che è bello: orion. Orion significa adesso, in questo preciso momento. E la bellezza è qualcosa che capita, che si dà a noi nello spazio di uno sguardo. Un dono ricevuto, non si sa per quali meriti, e di cui ringraziamo il destino che però non fa regali, perché è tale proprio in quanto concede solo e soltanto ciò che è dovuto. Ce lo spiega Jannis Kounellis, pittore e scultore greco contemporaneo, esponente di spicco della cosiddetta “arte povera”: “Un bambino è bello in quel momento e un uomo anziano è bello in un altro momento. La bellezza è una cosa che càpita e indica brevi momenti. […] E poi il bello è eversivo… Naturalmente, la bellezza non può evolvere…”.
Simili percezioni riecheggiano nella mente di chi attraversa calli e campielli in quel magico labirinto che ha nome Venezia. È lei la donna che langue sul crinale della decadenza. Andate e ammiratela, specie quando veste i panni del Carnevale. Panni sontuosi, eleganti, bizzarri e irriverenti, ma mai pacchiani o volgari. Inebriarsi del loro fascino e rimanerne storditi è un tutt’uno.

Alcune maschere sono creature spettrali, diafane, con quei volti di mezza luna e i lunghi abiti vaporosi, i gesti aggraziati e dolcemente meccanici, vere e proprie marionette viventi. Un connubio raro e quindi prezioso tra animato e inanimato. Di questo si meravigliava e discorreva Heinrich von Kleist in un dialogo filosofico tanto breve quanto denso, Il teatro delle marionette. Sul finale di quel saggio in forma di racconto e apologo, leggo: “nella misura in cui nel mondo organico la riflessione si fa più debole e oscura, la grazia vi compare sempre più raggiante e imperiosa. Così come due linee che procedono all’infinito si intersecano da un lato in un punto e poi all’improvviso anche dall’altro lato, così come l’immagine dello specchio concavo, dopo essersi allontanata all’infinito, d’improvviso ci ricompare vicinissima davanti, così anche la grazia, dopo che la conoscenza, per così dire, ha traversato l’infinito, si ritrova, in tutta la sua purezza, in quel corpo dalle sembianze umane che non ha nessuna o un’infinita coscienza, cioè… nella marionetta o in Dio”. E se per Kleist la visione di una marionetta può favorire “il ritrovarsi della coscienza nell’innocenza dell’infanzia”, per Rainer Maria Rilke anche l’infanzia è minacciata dalla coscienza della morte, che ne vuole decretare la fine irrevocabile. Eppure, Rilke come Kleist trovano nella marionetta la figura che rimanda all’oltremondano, a ciò che si sottrae al divenire, al mutamento che ci appare sempre come inarrestabile rovina. O meglio: il mutamento trasformato in cerchio, in moto circolare, eterno. Lo stato dell’infanzia, a ripensarlo da adulti, ci restituisce l’idea, l’intuizione, di quel che Kleist intendeva dirci.
Rilke meditò a lungo il saggio di Kleist sul teatro delle marionette e la IV Elegia duinese ne porta le inconfondibili tracce. Il vantaggio della marionetta è di “non esser soggetta alla legge di gravità”. La maschera carnascialesca veneziana ha qualcosa della marionetta cara a Kleist, a Rilke, che pur non ne trova consolazione, almeno finché non coglie che dietro di essa v’è l’angelo. L’infanzia è “densità”, è un significato in sé, ma non perdura. Ecco allora che l’angelo è la figura che redime una condizione temporanea, effimera, e la rende eterna. Se solo l’angelo mettesse i piedi a terra, restandogli questa, la terra, lieve, non gravitante, aggravante, grave e greve, come a noi, allora sì che tutto sarebbe sempre tra una primavera e un’estate. Autunno e inverno solo pantomime, al massimo preludi. La circolarità del tempo che nega il tempo come passaggio dal nulla al nulla, ma afferma l’eternità dell’essere. A tutto questo penso ammirando certe maschere del Carnevale veneziano.

E qui capisci come a contare sia sempre lo sguardo e come dell’occhio basti l’idea, l’attesa.

Mi riferisco soprattutto alle maschere femminili, o presunte tali. Esempio di femminilità ambigua. Ambigua perché non sappiamo chi si celi dietro quella maschera. Ma ambigua anche perché intravedi una femminilità leggera, pura, distillata fino all’essenza. Un tale tipo di costumi e maschere sa annullare l’identità per dar vita a surreali fanciulle, pallide dame in un’atmosfera fuori dal tempo, in uno scenario altrettanto favoloso. E allora mi chiedo oggi come tanti anni fa: ma Venezia è una maschera della bellezza o la bellezza in maschera? E qui, la maschera, è sinonimo di inganno oppure di camuffamento, di ritrosia e pudore nello svelare qualcosa di umanamente insostenibile se mostrato nella sua pienezza? La Bellezza dicono sia luce divina, in sé folgorante, sbriciolante l’umano che vi posi, ed osi, lo sguardo. Allora è come se Venezia, e massimamente durante il Carnevale, sapesse della responsabilità che anche la Bellezza comporta.
Il fatto stesso che le mani siano coperte da guanti e che la pelle in ogni punto del corpo non sia visibile fa sì che la sensualità perda ogni riferimento carnale esclusivamente visivo per acquistarne uno interamente percepito a livello intellettuale ed emozionale. Personificazioni di grazia e candore, sì, di un candore fors’anche asettico ma estremamente fascinoso, tali maschere sono creature sulla soglia dell’umano, una soglia non del tutto varcata.
La vita, la morte e l’amore: alcuni nodi si formano nella mente e nel cuore del viaggiatore che si abbandoni agli odori che impregnano i portici. Quei nodi chiedono di essere sciolti. Non si è mai così innamorati della vita come quando la si sente scivolare via e si sa di non poterla recuperare, e con essa se ne va pure la speranza di riscriverne la partitura. Come c’insegna la disperata ironia del musicista di Anonimo veneziano, celebre film che potrebbe costituire uno dei due binari lungo i quali percorrere i ponti che tagliano i canali che tagliano la città. La malinconia e lo struggimento per ciò che è inclinato irrimediabilmente verso il basso. L’intensità della bellezza e il non sopportare il fatto che non duri, che si dilegui in fretta, troppa fretta. Il corpo come condanna, fango che ritorna nel fango. Così l’uomo e così Venezia.
Un tale disse che “nessuno ha mai amato veramente, se non ha pensato, per un attimo, di morire con la sua amante”. Forse era un poeta belga, ma non ricordo con esattezza. Senza dubbio è il romanticismo, non c’è che dire, e la città lagunare ne è la sede naturale, e poco importa che Marinetti il futurista volesse incendiarla, dopo aver ucciso il chiaro di luna. Che si tenga pure la sua Milano, non priva di fascino ma schiacciata dalle proprie sterili frenesie. Agonia e convulsioni senza poesia, perché lì la gravità né cede né sfonda. Sta ferma, orizzontale, nell’apparente dinamismo che è solo corsa sul posto. Manca lo slancio, cara Milano. Che sia poi una caduta, non conta, perché Venezia ha appreso la lezione dell’ultimo Rilke.

Comunque non è solo, e nemmeno tanto questione di romanticismo, e anche restando dentro il romanticismo c’è sempre un’altra Venezia, il secondo binario del nostro percorso. E rimeditando Rilke, mettendo in relazione la sua poetica con quella di Ezra Pound, in particolare quella espressa dal poeta americano nelle sue prime poesie veneziane, comprendo che non vi è vera contraddizione fra i due e che da entrambi posso trarre una diversa rappresentazione letteraria, e non solo, di Venezia. Una Venezia solare, portatrice di energia, di vita e non di morte. O meglio: di una morte che assume sembianze e peso diversi nel momento esatto in cui riusciamo a farci “complici” delle cose caduche. E c’è anche un’altra riflessione di Rilke, stavolta suscitata da un soggiorno fiorentino, che spiega come Venezia e altre città italiane siano il luogo dove la poesia si è fatta pietra e spazio abitabile. Scriveva il poeta praghese, all’epoca giovane amante della fatale Lou Andreas-Salomé: “Siate un giorno soltanto non-moderni, e vedrete quanta eternità avete in voi”. Venezia, Firenze: luoghi “non-moderni” che sospendono il tempo, zavorrano il divenire, aprono ad un soggiorno poetico del mondo anche se spesso vi fa notte. E così Pound può dare la mano a Rilke, tramite Hölderlin (“poeticamente abita l’uomo su questa terra”).
È poi curioso come altre due sensibilità, pur provenienti da latitudini diverse ed espresse a distanza di tempo, convergano nello stesso luogo in un medesimo giudizio. E così, lungo il tragitto, mi imbatto nelle immagini evocate da un poeta russo, esule politico – o emigrato forzato ad opera dell’occhiuta polizia sovietica – in cerca di una patria adottiva. Forse la trovò a Venezia, questa patria d’adozione, e anche lui d’inverno. Lui era il grande Josif Brodskij. “Questo servizio di porcellana posato su un’acqua di cristallo” – sue le parole – è un sogno, sublime e inverosimile – o almeno a me così pare, caro Brodskij –, un sogno che prende corpo in un’architettura e una fitta trama di calli e callette, campielli e lagune, un labirinto magico eppure intriso d’umano che si approssima a ciò che alcuni potrebbero chiamare Paradiso. Mi accontenterei del Purgatorio. E se fosse il paradiso, sarebbe del tutto singolare, fatto solo di visioni, città dai mille specchi, per primo l’acqua stessa, dove si riflette l’ideale estetico di ognuno. Il corpo si trasforma nell’appendice dell’occhio.
Ma ecco l’inversione. Ora è lei che guarda te e ti chiede una metamorfosi. Tra acqua e fondamenta si gioca la partita dell’anarchia di ciò che non ha quiete contro l’ordine della forma che l’uomo impone alle cose e anche a se stesso. È una delicata combinazione di equilibri, “l’unione del genio dell’uomo con la potenza creativa della natura”, come dice un veneziano quasi sempre nerovestito, da tanti anni trapiantato a Milano.
Venezia può anche essere qualcosa di diverso rispetto ad una città per lune di miele, viaggi di nozze ufficiali o incontri clandestini che siano. È comunque il rifugio della bellezza, la bellezza che dà sollievo perché di te cattura solo l’occhio e ti affranca dalla prigione dell’anima, avrebbe ancora detto Platone.
Qualunque binario, alla fine, si scelga di percorrere, ciò che conta è aprirsi all’imprevisto, lasciare che accada ciò che deve accadere, senza cercare. Non c’è solo la decadenza e poi “c’è sempre qualcuno che ricomincia”, perché lei ha la facoltà di riconciliare come può farlo un’isola fuori dal mondo, perché Venezia è il luogo dell’evocazione. Almeno fino all’ultima, definitiva, consunzione. Persuasi però, grazie alle maschere che rievocano le marionette e gli angeli, e quindi Kleist e infine Rilke, che “se quelli che sono infinitamente morti una figura a noi risvegliare potessero / […] / e noi, che pensiamo alla felicità /come ascesi, avremmo l’emozione, / che quasi sgomenta, / di una cosa felice cadendo” (X Elegia, 106, 110-113).