Ha dichiarato oggi, 15 luglio 2015, il Presidente emerito della Repubblica italiana Giorgio Napolitano nel suo intervento presso la I Commissione Affari Costituzionali del Senato:
“Quel che oggi più da vicino ci interessa è il rapporto tra l’esperienza del bicameralismo paritario e il prodursi e il perpetuarsi di quella instabilità dei governi e dell’azione di governo che ha così vistosamente segnato il cammino costituzionale della nostra democrazia nei decenni e fino ad oggi. Credo non ci sia neppure da diffondersi sulla indifendibilità del tipo di bicameralismo che costituì lo sbocco compromissorio, nella Carta del 1948, di una discussione contrastata e tesa in sede di Assemblea. […] Comunque, la combinazione di quei due criteri – rappresentanza delle Regioni e rappresentanza delle categorie – nella composizione del Senato divise i Costituenti, non convinse e non passò. E si finì per approdare al “pasticcio” del bicameralismo paritario. […] E non basta, per uscire da simili contraddizioni e debolezze, restringere, come ormai si è convenuto, il circuito fiduciario Parlamento-governo a un solo ramo del Parlamento. Non è solo su questo piano, ma anche e non meno su quello dell’esercizio del potere legislativo, che il bicameralismo paritario ha contribuito a generare mostri”.
Dopo 58 anni, Napolitano arriva, almeno su questo punto, più o meno alle stesse conclusioni cui era giunto il costituzionalista Giuseppe Maranini. Così nel suo saggio del 1957, Il mito della Costituzione (anche se l’idea di fondo gli era già chiara sin dal 1949):
“Nella nuova Costituzione italiana il bicameralismo è accolto in una forma che sotto un certo aspetto può sembrare vigorosa, e quindi in contrasto con le tendenze che si sono fin qui illustrate. […] In apparenza, dunque, un bicameralismo integrale. Ma in realtà un bicameralismo che solo in condizioni particolari potrebbe diventare quasi efficiente. Il suo difetto sta nella sostanziale identità delle due Camere. Finché tale identità esiste, il suo risultato è quasi solo di rendere più lente e laboriose le procedure legislative. Ma non è un ostacolo serio alla concentrazione del potere, alla dittatura parlamentare”.
Il giudizio di entrambi è inequivocabilmente severo, critico e negativo. L’uno formulato con largo anticipo, l’altro con ampio ritardo. Oltre a ciò, forse l’unica differenza sostanziale sta nel fatto che Napolitano vede oggi, in un bilancio quasi settantennale di vita repubblicana, che il Senato non “è stato mai ‘contrappeso’ a un qualsiasi predominio politico dell’esecutivo”. Esecutivo che, per Maranini, appariva invece assai vincolato dall’azione parlamentare e soprattutto, tramite esso, dal controllo dei partiti, che facendosi partitocrazia diventano “il tiranno senza volto”. Scriveva sempre nel 1957: “I regimi di assemblea sono regimi per loro natura anarchici e di breve durata, se non trovano qualche correttivo”. Il correttivo fu trovato nella mancanza di alternanza al governo a causa del cosiddetto “Fattore K”, dell’impossibilità per il Pci di subentrare alla Dc nella guida dell’esecutivo per il contesto internazionale bloccato dalla “Guerra fredda” (di qui il “bipartitismo imperfetto” di cui parlò Giorgio Galli a metà anni Sessanta). Un correttivo anomalo e, alla lunga, controproducente, se non patogeno. D’altronde, alcune differenze fondamentali ci sono tra l’epoca dell’analisi di Maranini e quella attuale. Ad esempio, fino al 1963 la diversa durata delle due Camere, e poi l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario nel 1970. Per non parlare del disfacimento del sistema partitico.
In ogni caso, sul tema specifico di un bicameralismo inefficiente e inefficace, si può registrare la vittoria postuma di uno studioso anticonformista, poco ascoltato all’epoca, non di rado ostracizzato, mentre oggi è quasi totalmente dimenticata la sua lezione. Con grave perdita per la nostra cultura pubblica, costituzionale e civica. Ed infatti la vittoria di Maranini appare solo parziale, molto parziale, perché a leggere con attenzione l’intervento di Napolitano l’analisi si limita al solo aspetto della riforma del Senato, da rendere non più elettivo e dunque non decisivo nel processo legislativo. L’ex Presidente della Repubblica sostiene che, “per uscire da quella spirale nella quale il nostro sistema decisionale in ambito legislativo è rimasto bloccato, occorreva e occorre assicurare un iter lineare, sufficientemente rapido e garantito nei suoi tempi, dell’esame e dell’approvazione delle leggi in Parlamento. Di qui il valore, ne sono convinto, del superamento del bicameralismo paritario per ogni aspetto, in particolare quello delle defatiganti, tortuose quando non strumentali e dilatorie, navette tra i due rami del Parlamento”. Ma che da questa modifica possa derivare “un’effettiva stabilità, tempestività ed efficienza dell’azione di governo” non è affatto certo. Auspicabile, ma non certo né tanto meno automatico.
La legge elettorale varata, il cosiddetto “Italicum”, fornirà il supporto necessario a che stabilità, tempestività ed efficienza siano raggiunte? O non si dovrebbe forse riportare all’attenzione del dibattito quel che lo stesso Napolitano ha ricordato nel suo intervento, ovvero “il tema del rafforzamento dell’esecutivo”, il quale, sono sempre parole del Presidente emerito, “ebbe un posto di rilievo nelle discussioni in seno alla Commissione bicamerale D’Alema nel 1997-98, che fu chiamata a pronunciarsi sull’alternativa tra ‘premierato’ e ‘semi-presidenzialismo’. La soluzione ‘premierato’ fu sostenuta dal centro-sinistra senza temere di innescare una deriva personalistica o plebiscitaria. Prevalse di stretta misura la soluzione ‘semi-presidenzialismo’, ma com’è noto l’intero progetto di riforma poi cadde per effetto di una brusca rottura politica in Assemblea”. Anche su questo Maranini aveva detto e scritto molto sin dagli anni Cinquanta. Si dirà che quanto finora prodotto è il massimo che si poteva “portare a casa” in condizioni molto difficili, di grande lacerazione politica e istituzionale. Forte resta in me la sensazione che il vero treno delle riforme costituzionali “vere”, ossia sistemiche, organiche e coerenti, dunque di concreta e durevole efficacia, sia stato perso definitivamente nel 1998. Spero vivamente di sbagliarmi. Ed è possibile, perché nel cielo e negli inferi della politica (specialmente quella italiana) vi sono più cose di quante le possa contemplare la mia misera filosofia…
Per chi volesse saperne di più su Giuseppe Maranini (Genova, 1902 – Firenze, 1969), che quando scrisse Il mito della Costituzione era professore di Diritto costituzionale italiano e comparato nonché Preside della Facoltà di Scienze politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze, risulta particolarmente utile la sintetica ma densa voce curata da Luca Mannori per il Dizionario Biografico degli Italiani, Vol. 69 (2007), dell’Istituto Treccani [clicca sull’evidenziazione in arancione]. Altrimenti, si veda l’ampia e dettagliata monografia di Eugenio Capozzi (Il sogno di una costituzione. Giuseppe Maranini e l’Italia del Novecento, il Mulino, Bologna 2009).
Un altro esempio della sua “preveggenza”, che era “solo” lucidità di analisi, realistica e frutto di esperienze vissute anche drammatiche e fallimentari, ce l’offre questo brano tratto dalla prolusione, per l’anno accademico universitario fiorentino 1949-1950, dal titolo ‘’Governo parlamentare e partitocrazia’’ (quella in cui, fra l’altro, introdusse nel lessico politico italiano il lemma “partitocrazia”, destinato a grande fortuna).
“Le nuove forze associative scaturenti dalla lotta economica si politicizzano influendo sulla vita dei partiti in modo così decisivo da rendere ormai anacronistiche e impossibili libere e spontanee correnti di opinione, quali una volta erano in sostanza i partiti. I partiti dell’epoca nuova, si presentano come organismi disciplinati, dotati di burocrazia, finanza, stampa, inevitabilmente collegati alle organizzazioni economiche, sindacali, lobbistiche delle quali riflettano le lotte e gli interessi. Veri Stati nello Stato, ordinamenti giuridici cioè autonomi, essi mettono in crisi con il loro particolarismo e talvolta con il loro illiberalismo il debole Stato liberal-parlamentare, al quale si presenta un compito ben più grave di quello per il quale era attrezzato; non si tratta più di difendere l’individuo contro l’individuo, ma si tratta di difendere l’individuo e la legge contro potenti organizzazioni. Queste a loro volta traggono sempre nuovo alimento dal senso di panico potenziale che pervade gli individui a causa della carenza di diritto garantito dallo Stato. L’individuo, sentendosi indifeso dall’ordinamento statale, cerca negli ordinamenti minori e particolari la sua garanzia e a quegli ordinamenti paga il tributo di obbedienza che lo Stato non sa più esigere”.
Oggi, probabilmente, viviamo in un’epoca successiva al crollo di quel “tiranno senza volto” che fu la partitocrazia, ma pezzi di macerie continuano ancora ad intralciare il cammino delle riforme e la completa e definitiva fuoriuscita da un sistema instabile, inefficiente e inefficace. Quel che soprattutto intralcia è di matrice economica, ma di immediata ricaduta politica: è l’ingombrante erede della partitocrazia, un debito pubblico inarrestabile e crescente.