Sembra acqua passata, ormai, eppure proprio sopra a quell’acqua c’era un ponte. Traballante, ma proiettato al di là della Prima Repubblica. Adesso è crollato. E Renzi sembra impantanato. Il suo governo senz’altro. Colpevole, almeno in parte, è stata una decisione del giovane presidente del Consiglio. Decisione foriera di una vittoria di Pirro. Vinta la battaglia, persa la guerra. Forse. La guerra delle riforme. Di quelle più importanti, almeno secondo il Renzi dei tempi dell’insediamento al governo. Probabilmente con ragione, egli riteneva nel febbraio 2014 che solo cambiando il motore e il volante alla macchina, questa potesse uscire dal pantano economico e sociale in cui versa da troppo tempo. La vittoria di Pirro, a cui è poi seguita la sconfitta nella guerra delle riforme, è stata quella per l’elezione del presidente della Repubblica.
Fatale rischia di essere stata la modalità con cui ha condotto le consultazioni e poi imposto un nome senza che risultasse concordato con l’opposizione che fino a quel momento stava collaborando al processo “costituente”, o almeno riformatore, su legge elettorale e Senato. Fatale non solo e non tanto per la tenuta di questo governo, che ha proseguito nei due mesi e mezzo successivi, quanto per la capacità riformatrice, e dunque per l’immagine di Renzi come innovatore e “rottamatore” delle vecchie logiche e del vecchio apparato decisionale, burocratizzato e paralizzato da interessi corporativi e conservatori.
Fatale perché ha offerto l’occasione a chi, dentro Forza Italia, fin lì partito di opposizione ma di sostegno alle riforme, stava da tempo contestando il vecchio leader, Berlusconi, con l’accusa di favorire con quell’appoggio filogovernativo un’inarrestabile emorragia di consensi, a favore ora di Renzi ora di Salvini. Fatale, dunque, l’aver scelto un nome non concordato, e per di più di un personaggio che probabilmente rivelerà di essere assai meno riformatore, specie in termini costituzionali, di come lo si è voluto presentare al momento della sua elezione. Mi sto riferendo a Sergio Mattarella, ovviamente. L’esternazione fatta a caldo sulla sparatoria alla Procura di Milano di fronte ad un Csm convocato d’urgenza rivela come su alcuni fronti cruciali, riforma della magistratura ma anche costituzione e legge elettorale, Renzi non può dare per scontato l’avallo del Quirinale.
D’altronde, la scelta di Mattarella è stata fatta dal presidente del Consiglio per compattare l’intera compagine del Pd, e anzitutto dei suoi parlamentari e grandi elettori, in modo da evitare il ripetersi dei 101 franchi tiratori che affossarono la candidatura presidenziale di Romano Prodi. Ed è riuscito a compattare proprio perché è apparsa una candidatura, quella di Mattarella, totalmente estranea alla logica del patto del Nazareno. E qui entrano in gioco le grosse responsabilità di Berlusconi, che di fronte a questa mossa renziana – che ha le sue ragioni tattiche – ha deciso di far prevalere la logica di partito a quella di Stato, tenendo anche conto dell’approssimarsi delle elezioni regionali. Queste ultime, che si terranno in sette regioni il prossimo 31 maggio, oltreché in oltre mille comuni, sono un appuntamento estremamente importante per il centrodestra e per capire a chi debba spettare la leadership in quel frammentato e tormentato schieramento. Se ancora a Berlusconi, come risultava all’indomani delle elezioni politiche del febbraio 2013, oppure a Salvini che, da quando ne è alla segreteria, ha rilanciato la Lega Nord. Potrebbe rivelarsi per il leader di Forza Italia una mossa tardiva, e assai più controproducente, in termini sia elettorali sia di leadership, che non il mantenimento del ruolo di alleato per le riforme. In politica conta sempre chi arriva per primo ad occupare il posto, o ad intestarsi una issue, come si dice in gergo politologico, ossia un tema scottante e politicamente sensibile e sentito come urgente dall’opinione pubblica. Salvini ha colto l’attimo, e adesso il primato dell’antirenzismo a destra è molto probabilmente tutto suo.
Di chi dunque la maggiore colpa? Renzi o Berlusconi? Ce lo dirà la storia. Nel frattempo, la scelta di Mattarella ha senz’altro consentito a Renzi di portare a casa un importante risultato nell’immediato, ma ha altresì consentito all’opposizione di sganciarsi dal mortale, o potenzialmente tale, abbraccio col governo. Mortale dal punto di vista dei consensi elettorali. Un’opposizione che stava sostenendo le riforme in nome del patto del Nazareno, che aveva restituito a Berlusconi un ruolo dentro il Parlamento. Patto grazie al quale Napolitano aveva infine accolto l’avvicendamento tra Letta e Renzi, solo apparentemente incruento. Aveva accettato la propria rielezione al Quirinale nell’aprile del 2013 perché si facessero finalmente le riforme, anzitutto quella elettorale, e solo in nome di esse aveva detto sì. Magari anche per evitare uno scioglimento anticipato delle Camere, che all’epoca avrebbe probabilmente premiato i Cinque Stelle. L’invito esplicito era comunque ad un’assunzione di responsabilità da parte dell’intero ceto politico-parlamentare. Responsabilità che si sarebbe dovuta tradurre in uno sforzo coalizionale, o almeno fortemente collaborativo tra le forze presenti in Parlamento.
Sono state le larghe intese, sostanzialmente ricreate col patto del Nazareno, a dare l’iniziale spinta propulsiva al governo Renzi. Molte volte nel 2014 questo ha goduto dei voti dei senatori azzurri presso una Camera alta dove costante è, per il governo, il rischio di cadere in minoranza. Rischio ora più elevato che mai, e che obbliga Renzi ad un improvviso immobilismo. Qualcosa che da lui non ci si sarebbe mai aspettato. Lo spiega bene Michele Ainis nell’editoriale di oggi, 13 aprile, sul “Corriere della Sera”: il presidente del Consiglio “ha in gran sospetto ogni modifica” alla legge elettorale proprio “perché teme il riesame del Senato”. Così impedisce, anzitutto a se stesso, di ritoccare, e di fatto migliorare, un Italicum che così com’è rischia una bocciatura, o da parte del Quirinale o da parte della Consulta. Molto probabile che Renzi non abbia nella magistratura, nemmeno in quella costituzionale, un alleato sicuro. Problema di non poco conto.
D’altro canto, se non corregge in un paio di punti la legge elettorale in discussione alla Camera, c’è forte il rischio di avere ancora in piedi il Senato al momento in cui la legge, se ora approvata, dovrebbe entrare in vigore, ossia il 1° luglio 2016. Perciò Ainis suggerisce di introdurre una postilla con cui si stabilisce che la nuova legge elettorale entrerà in vigore soltanto dopo la cancellazione del Senato elettivo. Ciò, peraltro, produrrebbe due vantaggi: disincagliare la riforma della Camera alta, al momento arenatasi, ed evitare il rischio di andare a votare con l’Italicum alla Camera e con il Consultellum al Senato (ossia un sistema super-proporzionale, com’è il Porcellum evirato dalla sentenza della Corte costituzionale). Un delirio.
Può darsi che la paura del delirio induca ad uscire dal pantano, ma l’incalzare delle elezioni regionali non aiuta a ripensare grosse coalizioni. E senza larghe intese temo che di riforme costituzionali – e istituzionali – in Italia non si avrà traccia. Come non se n’è avuta nei vent’anni successivi alla presunta fine della Prima Repubblica. Ed è per questo che nella Seconda non si è mai entrati. Stiamo ancora lì, in mezzo al guado, sempre più nudi, davanti e di dietro. Puntare tutto sull’economia, come sembra voler far Renzi da qualche tempo a questa parte, appunto dalla fine del patto con Berlusconi, è rischio grosso, potenzialmente fatale. Può aiutarlo la congiuntura internazionale favorevole (“quantitative easing” di Draghi, drastico calo del prezzo del petrolio, rapporto euro-dollaro, e anche Expo e Giubileo, nonostante le polemiche che accompagnano i due eventi, ecc.). Ma sulle promesse economiche, specie se fondate su slogan del tipo “né tasse, né tagli” (ovvero: “botte piena e moglie ubriaca”), molti predecessori del leader fiorentino sono stati fermati, colpiti e affondati. Cambiare verso all’Italia sul piano economico e fiscale, del debito e dello sviluppo, e farlo in tempi rapidi, appare oggi persino più arduo che mutare aspetti delle istituzioni, pur essendo anch’esse da decenni immobilizzate e impermeabili perché santuarizzate.
Senza Nazareno, Renzi dà l’impressione di essere appiedato, e, se ancora corre, o dice di correre, dà sempre più la sensazione di farlo da fermo, come su un tapis roulant. Il neoministro delle Infrastrutture Delrio andrà pure al dicastero in bicicletta, e senza mani, ma Renzi non può permettersi di cambiare verso ad un’Italia arretrata e attardata andando a piedi. A meno che non mostri una tenuta da vero maratoneta. A dire il vero, ai tempi in cui era sindaco di Firenze, un paio di maratone le ha corse e condotte a termine. Da politico dovrebbe saper bene che l’Italia richiede l’attitudine di un maratoneta, da maratoneta dovrebbe sapere altrettanto bene che non bisogna avere fretta. Semmai calma, e sangue freddo. Veloci sì, ma con costanza e regolarità, senza strappi. È arrivato a Palazzo Chigi in altro modo, con altri ritmi. Non so se può restarci mantenendo la stessa andatura, che rischia poi di essere solo annunciata, più detta che praticata. Perché il fiatone incombe, e per strada ha perso la staffetta, o chi gli passava periodicamente la borraccia d’acqua o sali minerali. Fuor di metafora, senza Nazareno Renzi rischia di fermarsi al 32° km. Da sempre fatale anche per maratoneti ben più esperti dell’attuale presidente del Consiglio. Chissà se basteranno gioventù e determinazione a far tagliare comunque il traguardo.