Recensione a: Raymond Aron, Libertà e uguaglianza. L’ultima lezione al Collège de France, Edizioni Dehoniane, Bologna 2015
Uscita due anni fa in Francia, è stata opportunamente tradotta l’ultima lezione che Raymond Aron tenne al Collège de France. Era il 4 aprile 1978. Il discorso, di cui si era persa la registrazione ma conservato un dattiloscritto, peraltro pieno di errori, torna oggi all’attenzione del lettore grazie alle cure di Pierre Manent e Giulio De Ligio. Pur essendo molto diverso il contesto storico, politico e culturale, la riflessione del pensatore francese conserva freschezza e interesse. A dispetto del titolo, però, la lezione di Aron si concentra sulla libertà e pare far intendere che per uguaglianza si debba considerare l’estensione potenzialmente erga omnes delle libertà, variamente declinate.
Infatti Aron precisa anzitutto che di libertà al plurale egli intende parlare. Si può godere di un maggiore o minore numero e grado di libertà, a seconda di come sono politicamente rette le società nelle quali ci troviamo a vivere. Solo all’interno di una società organizzata è comunque possibile fruire delle libertà, tante o poche esse siano. Al di fuori della società “regna fra gli uomini la sicurezza” (p. 33), afferma Aron chiarendo sin dall’inizio il proprio debito nei confronti della tradizione giusnaturalistica e contrattualistica presente nella storia del pensiero politico europeo. Quattro sono le categorie di libertà che poi vengono passate in rassegna, muovendosi su un piano sia concettuale-astratto sia pratico-concreto. Si tratta, rispettivamente, della sicurezza o protezione degli individui; della libertà di circolazione; della libertà economica e della libertà religiosa, ovvero di opinione, espressione e comunicazione. In altri termini, sono le libertà personali, politiche e sociali. Libertà tanto “imperfette” (p. 38) quanto preziose sia dal punto di vista simbolico sia da quello pratico. Simbolico perché, ad esempio, “il diritto di voto consacra per così dire l’uguaglianza di tutti gli individui, nonostante tutte le disuguaglianze, rispetto a qualcosa che è in sé essenziale, cioè la scelta dei governi” (p. 42). Le procedure non sono soltanto forma, e un effetto sia protettivo sia proiettivo lo producono; “si prevengono o correggono molte violenze e ingiustizie che affliggono le società che ignorano queste procedure” (ibid.). Resta comunque vero che “l’atto elettorale o la procedura parlamentare non offre necessariamente al popolo la sensazione di governarsi da sé” (p. 43). Bisogna però allora che esista pure un’esigenza intima e diffusa all’esercizio dell’autogoverno. È questa che prende il nome di “virtù politica”, concetto caro al pensatore francese.
L’educazione alla virtù politica così strettamente intesa risulta particolarmente importante, tenuto conto che le libertà nelle democrazie liberali si definiscono in un rapporto ambivalente con lo Stato, grazie ad esso e contro di esso al contempo. Per secoli, le libertà degli individui “sono state concepite come forme di resistenza agli abusi dello Stato, come limiti alla sua onnipotenza”, ma contemporaneamente, e specialmente in concomitanza con l’emergere delle prime forme embrionali di welfare, si sono chieste alle istituzioni pubbliche la garanzia e la tutela di alcune delle nostre libertà. A dimostrazione che le democrazie liberali vivono di un delicato composto che si rivela e mantiene vigente e vitale se persiste l’equilibrio fra opposte esigenze. E solo in questo equilibrio di contrasti le libertà prosperano nella loro molteplicità e diversità.
Più avanti Aron affronta un paio di questioni strettamente connesse fra loro e decisive per il consolidamento o meno di un sistema politico, qualunque esso sia, e, nello specifico, di un sistema rappresentativo liberale e democratico. Anzitutto, la questione del “sentimento” della libertà, della percezione e coscienza che si ha della propria condizione personale all’interno della società in cui si vive.
Aron parla a fine anni Settanta e parla in una Francia, e più in generale in un’Europa occidentale, che era ancora fresca reduce dalla contestazione studentesca del ’68 e dintorni. Per di più, l’Unione Sovietica era ancora in piedi e si era ben lungi dal pensarla prossima al collasso interno. Soprattutto, erano ben presenti e combattivi, in Paesi come Francia e Italia, partiti comunisti con largo seguito, e, nel caso italiano, di recente espansione elettorale particolarmente significativa. Dunque, Aron poteva a buon diritto sostenere nel 1978 che “in una società come quella di cui descrivo i principi, molti individui sentono di non essere liberi” (p. 45). Una sensazione che poteva anche corrispondere a realtà per quelle categorie che effettivamente vivevano in circostanze materiali di penuria e privazione. Ad Aron preme però sottolineare come sia altrettanto determinante in questo sentimento negativo, in questa coscienza di assenza e/o privazione di libertà, l’ideologia di cui si nutre il cittadino. Questo perché, ed è la notazione filosofico-politica più interessante del ragionamento che qui svolge lo studioso francese, “la coscienza della libertà non si separa dalla coscienza della legittimità della società” (p. 46). E si può ritenere una società legittima o meno non solo sulla base di quel che concretamente ti concede o sottrae, ma anche sulla base della “rappresentazione della buona società”. Se questa rappresentazione, questo ideale non coincide con i principi che animano la società in cui vivi, puoi ritenerti oppresso anche se, nei fatti, le tue libertà, civili, politiche e sociali, non sono conculcate dal sistema di autorità.
C’è poi da tener presente che la constatazione della presenza di un qualche grado, quale esso sia, alto o basso, massimo medio o minimo, di disuguaglianza presente tra ampie o ristrette, qui poco conta, fasce della popolazione concittadina, è sufficiente a motivare un sentimento di non libertà anche propria all’interno di un giudizio di rifiuto, che diventa “totale” nei confronti delle società democratiche contemporanee. Memore di quanto maturato sin dagli anni Sessanta ed esploso attorno al 1968, sulle cui vicende aveva scritto “a caldo” il saggio La Révolution introuvable, che molte polemiche suscitò, Aron ritiene che “una delle tendenze ideologiche che hanno attualmente più successo nella giovane generazione sia il fatto di detestare il potere in quanto tale” (p. 59). Se si pensa che Aron pensava e scriveva nella Francia travolta dalla moda culturale strutturalista e che proprio in quegli anni stava vedendo l’ascesa di Michel Foucault nell’empireo della cultura accademica e non, risultano immediatamente comprensibili i riferimenti polemici di questa parte del suo ragionamento. Il suo dire, però, non ha toni perentori e tanto meno denigratori. Come ricorda correttamente Pierre Manent nell’introduzione, Aron si contraddistingue in questo discorso per il suo atteggiamento di osservatore e commentatore sobrio e imparziale. A mio personale avviso, fa trapelare in modo evidente le proprie preferenze e idiosincrasie, ma è il tono generale del discorso a non assumere mai accenti acrimoniosi. Sembra quasi volersi limitare ad informare. D’altro canto, l’origine orale di questo testo favorisce in tal senso.
Aron sa bene, e lo esplicita, di aver voluto parlare in questa sua ultima lezione della libertà degli individui in una comunità politica. Esiste però la libertà collettiva, di un gruppo, anche interno ad uno Stato nazionale, libertà a cui si aspira come alla vera e unica ritenuta degna di tal nome. Nell’antichità greca, addirittura, il gruppo in riferimento al quale si considerava effettiva la fruizione della libertà era solo e soltanto l’intera polis stessa, la città-comunità nel suo insieme. Ovviamente, non tutti i suoi componenti erano gli effettivi fruitori della libertà, ma quest’ultima era tale se coincideva con la partecipazione quotidiana e attiva di tutti i titolari di questa libertà, i polítēs, coloro che possiedono la politikē aretē. D’altronde, Aron ha voluto presentare e analizzare un elenco di libertà storicamente determinate, situate in un contesto che è quello delle società nelle quali egli e ancora noi viviamo. Senza negare il potenziale universale di queste libertà, ad Aron premeva ricordare come la nostra civiltà europea sia giunta prima a pensare e infine, dopo lungo travaglio, ad erigere società in cui si “protegge e addirittura incoraggia la libera attività di ognuno” (p. 48). Almeno a livello di principi costituzionalmente sanciti e dunque agibili, viviamo a tutt’oggi in “società relativamente prospere e con una profonda tradizione di ricerca della libertà nell’uguaglianza o dell’uguaglianza nella libertà” (p. 69).
Il liberalismo di cui Aron si fa portavoce è definito dal riconoscimento di “un pluralismo di libertà e di poteri” (p. 61), che egli non si nasconde quanto facilmente possa essere intaccato e manomesso dal permanere o riemergere di meccanismi autoritari e sperequativi “nella vita professionale ed economica” (ibid.). Se oggi non sussistono più le due forme di rifiuto totale e radicale presenti negli anni Settanta, ovvero quella pacifica degli “hippies” e dei contestatori di derivazione sessantottina, e quella violenta dei gruppi armati del terrorismo rosso e nero, ciò non toglie che la disaffezione nei confronti dei sistemi liberal-democratici occidentali sia ancora elevata, fors’anche di più, nonché alimentata da nuovi, inediti sfidanti. A dimostrazione di quanto Aron sia un classico che continua a parlarci e fornirci lenti con cui poter leggere in filigrana gli eventi nazionali e internazionali che ci assediano ogni giorno.
Oltre alla sobrietà di cui parla Manent, non escluderei, a mio modesto avviso, la presenza in queste pagine aroniane di una sottile ironia socratica. Nel minimizzare o nel lasciare apparentemente correre su alcuni punti controversi, Aron finisce poi per far risaltare meglio alle orecchie di chi ascolta e agli occhi di chi legge pregi e difetti dell’una e dell’altra posizione, di volta in volta oggetto di osservazione e analisi. Un esempio è il seguente passaggio, poco prima della conclusione: “Non credo che ciò che facciamo o pensiamo in Occidente sia provinciale. Ma sono i problemi e i pensieri delle società privilegiate – di società privilegiate che hanno per così dire determinato il vocabolario e i discorsi degli altri popoli, delle altre società, ponendo al centro dell’attenzione questioni che probabilmente non sono, per la maggior parte degli altri popoli, le questioni più urgenti” (p. 70). Non sono affatto sicuro di trovarmi di fronte ad un relativismo culturale, e tanto meno politico, ma piuttosto alla constatazione che l’Occidente ha elaborato principi universali che, con la propria vittoriosa espansione commerciale e militare, hanno sconvolto popoli e culture per lo più chiuse, statiche e tradizionali. Aron non esita, nel finale, ad affermare che “le nostre società, di cui noi critichiamo giustamente le imperfezioni, rappresentano oggi, rispetto alla maggior parte delle società del mondo, una felice eccezione” (p. 70). Ciò non vuol dire che il “nostro modello” debba essere seguito da tutte le società del resto dell’umanità, né tanto meno imposto con la forza. Niente esportazione della democrazia, insomma. Ad Aron preme concludere con il seguente monito: “non dobbiamo mai dimenticare, nella misura in cui amiamo le libertà o la libertà, che godiamo di un privilegio raro nella storia e raro nello spazio” (ibid.). Appunto: “nella misura in cui amiamo le libertà”. Proprio da questo dipende anche, se non soprattutto, il futuro delle nostre democrazie.