Quel che per diciotto secoli era stato giustificato mediante le Sacre Scritture cominciò ad essere ribaltato sulla base della medesima fonte. Protagonista di tale rovesciamento esegetico fu negli Stati Uniti d’America Sarah Moore Grimké (1792-1873), assieme alla sorella Angelina. Nate e cresciute nelle piantagioni della Carolina del Sud da una ricca famiglia di proprietari di schiavi, entrambe manifestarono precocemente il loro anticonformismo e la loro voglia di emancipazione per il genere a cui appartenevano e per gli afroamericani. Ancora piccola, Sarah fu punita per aver insegnato a leggere e scrivere alla sua schiava personale. Abbandonata la Chiesa episcopale, diventò quacchera, dopodiché, a metà anni Trenta, aderì alla Female Anti-Slavery Society di Philadelphia. Contribuì al nascente movimento femminista americano, sorto dal settarismo radicale e dal dissenso interno rispetto all’ortodossia e alle posizioni più conservatrici sostenute dalle varie confessioni cristiane presenti sul territorio statunitense. Dalle iniziative culturali e dalle battaglie politiche e civili di Sarah e Angelina, così come di tante altre donne e uomini dell’America della prima metà dell’Ottocento, emerge in modo netto e chiaro tutto il potenziale di sovversione che è inerente alla fede cristiana.
Rispetto alla tradizionale predicazione dei pastori protestanti Sarah contro-argomentava nei seguenti termini: è Dio stesso ad aver creato uomo e donna a propria immagine, come insegna il libro della Genesi. Una creazione di esseri morali e responsabili, investititi direttamente dal Creatore di “sacri e inalienabili diritti”. Affermare l’inferiorità della donna e stabilirne una condizione di discriminazione e subordinazione al maschio significava pertanto offendere in primo luogo “la saggezza e la misericordia di Dio”. La Bibbia fu perciò riletta come la grande carta dei diritti umani, la fonte indiscutibile che legittima la parificazione tra uomini, donne e schiavi nel nome dell’eguaglianza universale.
Con la sorella, nel 1837 Sarah affrontò ventitré settimane di viaggi e incontri – più di ottantotto – tanto da parlare in ben settantasette tra città e villaggi ad oltre quarantamila persone, uomini e donne. Obbiettivo era replicare alla Lettera pastorale con cui il clero congregazionalista del Massachusetts aveva sostenuto, in ciò concorde con i quaccheri più ortodossi, che le donne non potevano parlare in pubblico. Si trattava di una lettera ufficiale pubblicata il 12 luglio 1837 sul “New England Spectator” con lo scopo di attaccare proprio le sorelle Grimké e la loro fervente attività abolizionista. Si sosteneva perciò, da parte del ministro congregazionalista di Boston Nehemiah Adams, che la subordinazione delle donne agli uomini era stata ordinata direttamente da Dio.
Quella di Sarah intendeva essere una replica basata su argomentazioni che traessero linfa dalla stessa teologia cristiana e da un’esegesi biblica libera dalle traduzioni false e tendenziose operate da teologi e ministri del culto mossi anzitutto dal proprio orientamento maschilista. Scriveva infatti nella prima delle sue lettere, raccolte l’anno dopo in un opuscolo dal titolo Letters on the Equality of the Sexes and the Condition of Woman (1838): “Sono incline a pensare che, quando noi saremo ammesse all’onore di studiare il greco e l’ebraico, produrremo varie letture della Bibbia alquanto differenti da quelle che abbiamo ora”. Quanto addotto dall’Associazione generale dei ministri congregazionalisti, continuava Sarah, era solo frutto di pregiudizi, alimentati da un’educazione tradizionale di cui la prima vittima era la donna, relegata ad un ruolo subordinato, di soggezione edulcorata da un’etichetta tanto ipocrita quanto vuota: “Quanto mostruosa, quanto anticristiana, è la dottrina che la donna deve essere dipendente dall’uomo! Dove, in tutte le Sacre Scritture, è insegnato questo? Ahimè! Essa ha troppo bene imparato la lezione che l’UOMO ha cercato di insegnarle. Essa ha creduto i suoi più cari DIRITTI e si è appagata dei privilegi che l’uomo ha deciso di concederle; essa si è divertita con l’apparenza del potere, mentre l’uomo ne ha assorbito tutta la realtà. egli ha adornato la creatura che Dio gli diede come compagna con fronzoli e gingilli, l’ha resa attenta a essere personalmente attraente, ha offerto incenso alla sua vanità e ha fatto di lei uno strumento della sua gratificazione egoista, un giocattolo per compiacere il suo occhio e per distrarsi nelle sue ore di ozio” (l’uso dello stampatello è nel testo).
L’argomento con cui tradizionalmente si è avallata questa sudditanza è ingannevole e subdolo, riassumibile nella formula “governate con l’obbedienza e dominate con la sottomissione”, come a dire che la vera detentrice di autorità e anche potere tra le mura domestiche è sempre stata la donna dal momento che l’etica cavalleresca costringerebbe gli uomini ad essere “gentili e concilianti”, come scriveva nel 1776 John Adams, secondo presidente degli Stati Uniti d’America, alla moglie Abigail Smith, convinta dell’esatto contrario. Qualche decennio dopo era proprio Sarah Grimké a denunciare questo “codice della moralità domestica che è stato insegnato alla donna”, incentrata sull’esaltazione della gentilezza e mitezza come virtù tipicamente femminili. Nel concreto queste erano sinonimi di arrendevolezza e sottomissione ai comandi dei padri e dei mariti.
Quando si afferma che l’uomo è più forte della donna si dice qualcosa di valido solo sul piano della “forza bruta”, della mera forza fisica, ma se si pretende di “affermare che la debolezza mentale o morale è propria della donna più che dell’uomo, allora nego totalmente questa pretesa”. Certamente non può essere fondata sulla parola di Dio, a meno di non velarne o alterarne il significato immediatamente comprensibile alla semplice lettura dei testi: “Mi pare totalmente sconveniente alla dignità di un corpo cristiano tentare di stabilire una distinzione così antiscritturale fra uomini e donne. Ah! Quante persone del mio sesso sentono nel dominio così ingiustamente esercitato su di loro, con la pretesa gentile della protezione che ciò a cui si sono appoggiate si è dimostrato di essere al meglio una canna rotta, e spesso una lancia” (il primo corsivo è mio).
In un’altra lettera, Sarah ricordava come storicamente il cristianesimo sia stato liberatore nei confronti dei vincoli che le donne subivano dalle “tradizioni giudaiche e dagli usi pagani”. Ricordava, in un’altra ancora, “l’eguale colpa dell’uomo e della donna nella Caduta”, nella cacciata dal Paradiso terrestre. In modo velatamente provocatorio, ella affermava di essere “una di quelle che sempre ammettono, nella più larga misura, l’accusa popolare che la donna ha portato il peccato nel mondo”, ma di accettarlo “come un motivo potente che spiega perché la donna sia tenuta a lavorare con doppia diligenza, per la rigenerazione di questo mondo che essa ha contribuito a rovinare”. E anche in questo caso elencava passi della Sacre Scritture che provavano “l’identità e l’eguaglianza di uomo e donna, e che non c’è differenza nella loro colpa agli occhi di quel Dio che esplorava il cuore e provava i reni dei figli degli uomini”. I reni sono la sede del giudizio nel linguaggio poetico biblico. D’altronde in I Timoteo 2,14 si legge: “Adamo non fu ingannato; ma la donna essendo stata ingannata, si trovò nella trasgressione”. Come a dire, commentava ironica Sarah, che il primo uomo fu consapevole delle conseguenze “del condividere la trasgressione”. E allora, tutta colpa di Eva?
Nell’opuscolo del 1838 Sarah rivendicava l’emancipazione femminile e l’abolizione della schiavitù tramite la lotta per il suffragio universale, combinando il tema dei diritti di libertà con una riforma della lettura e interpretazione delle Sacre Scritture. La battaglia condotta dalle sorelle Grimké era la stessa di Theodore Dwight Weld (1803-1893), predicatore, educatore e riformatore, e tra i principali leader del movimento abolizionista americano. Perentoria una sua sentenza: “non conosco i diritti dell’uomo, o i diritti della donna; i diritti umani sono tutto ciò che io conosco”. Eloquente il titolo di un suo scritto, coevo all’opera della Grimké: The Bible Against Slavery, or, An inquiry into the Genius of the Mosaic System, and the Teaching of the Old Testament on the Subject of Human Rights (1837). Merita, a tal proposito, citare un passo di Lutero, direttamente o indirettamente presente in tutto il cristianesimo riformato americano: “Io sono un uomo, questo è un titolo più alto che quello di essere principe. Motivo: Non è stato Dio a fare il principe, ma gli uomini, ma che io sia un uomo, è stato solo Dio a farlo”. Ecco quel potenziale eversivo di cui si parlava; eversivo, ad esempio, rispetto alla giustificazione monarchica o aristocratica di gerarchie politiche e sociali permanenti e immutabili. Ogni legittimazione in nome di Dio è semplice impostura.
La Bibbia come fonte di insegnamento in materia di “diritti umani”, niente di meno che questo. D’altro canto, si legge in Galati 3,28: “non c’è né uomo né donna; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù”. Ne faceva menzione Sarah Moore Grimké. Ecco il perché delle abbondanti e lunghe citazioni dalle sue lettere, di permanente validità come tutto ciò che ha fatto la storia di una civiltà dei diritti e dei doveri, della libertà e dell’eguaglianza. Lettere degne di larga diffusione anche nell’Italia e nell’Europa di oggi. Citazioni che sono qui intese a segnalare il ritorno di attualità di temi e argomenti che, volenti o nolenti, agiteranno nell’immediato futuro le acque già mosse del nostro presente.