Archivi tag: Thomas Hobbes

Gli sciacalli in mezzo al genocidio

Recensione a: JAN TOMASZ GROSS, con IRENA GRUDZIŃSKA GROSS, Un raccolto d’oro. Il saccheggio dei beni ebraici, ed. orig. 2011, trad. dall’inglese di Ludmila Ryba, Einaudi, Torino 2016, pp. 126, € 20.

L’uomo non è soltanto un lupo per l’altro uomo, come affermava Thomas Hobbes riecheggiando e radicalizzando una sentenza risalente a Plauto, ma è perfino uno sciacallo. Lo si può amaramente constatare leggendo questo libro che analizza la complicità della popolazione polacca nel saccheggio e nelle uccisioni degli ebrei ai margini della Shoah.

Se lo sterminio fu progettato e perpetrato dai nazisti tedeschi, questo libro di Jan Tomasz Gross, scritto in collaborazione con Irena Gross, ci dice come la popolazione locale polacca non di rado si aggiunse nell’aggravare la tragedia. In queste pagine trova conferma quanto scritto da un altro studioso della Shoah, e cioè che gli abitanti dei villaggi e delle cittadine polacche smisero di considerare gli ebrei come esseri umani e cominciarono a trattarli come “defunti in licenza”, senz’altro non come cittadini a pieno titolo.

La spoliazione degli ebrei fu un fenomeno su scala europea, che interessò tutti i territori occupati dai tedeschi. Il successivo rientro dei sopravvissuti dai campi di concentramento fu travagliato, perché accompagnato da una “avversione attiva” mostrata da quanti, nel frattempo, avevano sottratto loro alloggi, posti di lavoro, negozi e varie attività economiche. Nell’aprile del 1945, ad esempio, per le strade di Parigi centinaia di persone sfilarono al grido di “Morte agli ebrei!” e “La Francia ai francesi!”.

Ad eccezione di singoli parroci, nel suo insieme la Chiesa cattolica fu silente, “il grande assente nella storia della Shoah degli ebrei polacchi”. Secondo Gross, che attinge ad una grande messe di dati, attinti da molteplici e autorevoli fonti, la Chiesa polacca non fu solo miope o vile, ma consenziente e infine compiacente. Il Rapporto ecclesiastico dalla Polonia per giugno e la prima metà di luglio 1941, documento ufficiale dello Stato clandestino polacco, arrivava a definire “precisa opera della Provvidenza Divina il fatto che i tedeschi, accanto a una moltitudine di torti che hanno inflitto e stanno infliggendo al nostro Paese, almeno sotto un aspetto hanno cominciato bene, mostrando cioè la possibilità di liberare la società polacca dal flagello giudaico, e indicando la strada da seguire, in modo ovviamente meno brutale e crudele però costante”.
Trova così spiegazione il commento frequente tra gli ebrei dell’Europa orientale che sopravvissero, quando ricordavano come la gente del posto – ucraini, lituani o polacchi – “era peggio dei tedeschi”. Sapevano bene che la Shoah, il genocidio ebraico, fu un’idea di Hitler e dei nazisti messa in atto durante l’occupazione tedesca del fronte orientale. Eppure lì si concentrava la memoria più dolorosa. Gross lo spiega con il fatto che “la morte inflitta da persone conosciute genera una sofferenza particolare, nel senso morale della parola, causata dal tradimento subito”.

Branchi di connazionali, magari vicini e conoscenti, si tramutarono in sciacalli che si avventarono bramosi sulle carcasse delle vittime dello sterminio. Sciacalli senza distinzione di classe, tanto che, “se ci si domandasse cosa hanno in comune un banchiere svizzero e un contadino polacco – oltre a essere entrambi uomini e possedere un’anima immortale – la risposta, solo leggermente esagerata, potrebbe essere: un dente d’oro strappato dalla mascella di un ebreo ucciso”. Sciacalli senza confini e distinzioni ideologiche, se, come ricorda lo stesso Gross citando un volume di Nicolas Werth (L’isola dei cannibali), contadini siberiani andavano a strappare i denti d’oro ai cadaveri dei prigionieri che negli anni 1932-33 furono abbandonati e lasciati morire di fame su uno degli isolotti della Siberia adibiti dai sovietici a gulag. Non meglio fecero nel 1945 alcuni ufficiali britannici che depredarono un gruppo di ufficiali cosacchi, prima di consegnarli ai sovietici e a morte sicura (lo ricorda lo scrittore Józef Mackiewicz). In guerre di sterminio, prolungate nel tempo, acuite da odi etnici e rigurgiti tribali, in guerre di genocidio, come sono state anche, per restare nel nostro continente, i più recenti conflitti balcanici degli anni Novanta, episodi del genere si sono ripetuti. Lo sciacallaggio in mezzo allo sterminio, nel mentre il genocidio si consumava davanti ai loro occhi di vili predatori dei beni, anche miseri, delle vittime, umiliate e uccise due volte.

Questo libro induce a riflettere amaramente sulla natura umana, su quella sua oscurità che si sprigiona quando viene immersa nelle voragini, inebetita dalle vertigini e sommersa dalle tempeste d’acciaio di guerre totalizzanti e brutalizzanti fino all’inverosimile. Fino all’estremo della disumanità integrale. Rimeditare queste pagine della storia, e non solo in prossimità della Giornata della Memoria (della Shoah) e del Giorno del Ricordo (delle vittime delle foibe), è necessario. Il lato oscuro è sempre dietro l’angolo. Illuminarlo è doveroso per chiunque abbia coscienza di cosa sia il male, di cosa sia il bene. Non tutto è relativo, non tutto è indistinto ed opaco in questo crepuscolo d’Occidente. De nobis fabula narratur.

Se questo è un uomo

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

(Primo Levi, Se questo è un uomo, 1947)