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Etica e politica

di Franco Biagioni

Spesso, quando si parla di etica, lo si fa solo in riferimento alla vita di una collettività, come se l’etica fosse quanto è necessario per far “stare insieme” quella collettività: qualcosa di simile al diritto: non che questo aspetto non sia importante, ma l’etica perde qualcosa del suo valore se niente il suo discorso dice riguardo alla vita personale: i filosofi antichi si proponevano come scopo del filosofare aiutare gli uomini a raggiungere la vera “felicità”: comportandosi in un certo modo, rinunciando a quelli che si scoprono come beni illusori e scegliendo la via del vero bene, del bene che non delude e che è la via del “sapiente”: approdando a soluzioni diverse: da Aristotele, agli epicurei, agli stoici, nel mondo greco, Cicerone, Seneca, Marco Aurelio nel mondo latino. E anche la riflessione dei Padri della Chiesa, nei primi secoli del cristianesimo, andava nello stesso senso: la ricerca della felicità vera: che si inquadrava in una prospettiva ultramondana ed eterna. E per tutti il raggiungimento della felicità passava attraverso la conoscenza: solo il sapiente, l’esperto di umanità, si direbbe oggi, poteva indicare la via della felicità, perché solo la conoscenza del vero bene poteva illuminarla. “Nella vita morale, la conseguenza dell’asserto secondo cui il bene perfeziona l’ente, è che l’atto moralmente buono perfeziona l’uomo. L’umanità della morale si fa manifesta nel fatto che l’uomo diventa migliore attraverso l’atto buono e peggiore in quello cattivo. E’ singolare quanto questo possa essere trascurato dalla filosofia morale contemporanea, che nel suo indirizzo normativo o in quello empirico- sociologico sembra prescindere dal carattere umano della morale, ossia dall’esperienza centrale che l’atto etico buono o cattivo rende buono o cattivo l’uomo” (Vittorio Possenti, Approssimazioni all’essere, pp. 160-161).
Tutto questo ha un riflesso sulla definizione dell’uomo giusto: delle tre indicazioni che troviamo in Tommaso a proposito della giustizia, la terza, che è quella che scava più addentro alla persona, viene oggi spesso dimenticata, a favore soprattutto della seconda, che è quella che più attiene alla vita sociale (De Veritate q 28 a 1): dicitur autem iustitia tripliciter: “uno modo secundum quod est quedam specialis virtus contra alias cardinales divisa…” alio modo dicitur iustitia legalis… virtus enim secundum quod actum suum in bonum commune ordinat, ad quod etiam intendit legislator, iustitia legalis dicitur, quia legem servat…tertio modo iustitia nominat quendam statum proprium, secundum quem homo se habet in debito ordinem ad Deum, ad proximum et ad se ipsum, ut scilicet in eo inferiores vires superiori subdantur; quod appellat Philosophus in V Ethicorum iustitiam metaphorice dictam, cum consideretur inter diversas vires eiusdem personae, iustitia proprie dicta semper existente inter diversas personas. Et huic justitiae omne peccatum opponitur, cum per quodlibet peccatum aliquid de predicto ordine corrumpatur: et ideo ab hac iustitia iustificatio nominatur. Sive sicut motus a termino, sive sicut effectus formalis a forma.
(traduzione mia: “La giustizia si può dire in tre modi: nel primo modo, avendo riguardo al fatto che è una specifica virtù, che si distingue dalle altre virtù cardinali; nel secondo modo si dice giustizia legale… che è virtù riguardo al fatto che ordina l’agire in relazione al bene comune, al quale si riferisce anche il legislatore, e viene detta giustizia legale, perché fonda la legge; nel terzo modo con giustizia si intende un certo stato secondo cui l’uomo si tiene ordinato nel modo dovuto a Dio, al prossimo e a se stesso, nel modo in cui in lui le forze inferiori sono subordinate alle superiori; e questo Aristotele chiama, nel quinto libro dell’Etica, giustizia intesa metaforicamente, dal momento che la giustizia intesa in senso proprio si trova sempre nel rapporto fra le persone. E a questa giustizia si oppone ogni peccato, poiché l’ordine che dicevamo è guastato da qualsiasi peccato: e da questa giustizia si definisce la giustificazione. Sia come il moto dal fine, sia come la perfezione dalla forma”).

Oggi prevale la discussione sul buon funzionamento della società, che sarebbe l’argomento proprio del diritto. Invece l’etica mette l’uomo davanti a se stesso e alla sua vita. Proprio la vita può rappresentare il punto di partenza di un discorso sull’etica: la vita è l’essere stesso dell’uomo che si dispiega nel tempo, intima all’uomo e al tempo stesso in continuo dialogo e in continua relazione con gli eventi che lo circondano. Essere in vita è l’essere dell’uomo: un essere che deve continuamente alimentarsi, un essere contingente in cui l’uomo si sente dipendente, un essere che gli è stato donato originariamente e che è continuamente alimentato da un dono: e di questo dono egli è innanzi tutto responsabile: il primo comandamento dell’etica potrebbe essere “non sprecare la tua vita”: non addormentarla nell’ozio, non stravolgerla con stupefacenti, non considerare il divertimento come il fiore della vita, ma cerca di impiegare i tuoi giorni in modo proficuo, nella relazione interpersonale, nelle attività creative (anche il lavoro è un’attività creativa, un modo di realizzarsi), nello studio, nella meditazione, nella contemplazione. Alterna le attività col riposo, non farti assorbire da un solo aspetto della vita, ma cercane un’armoniosa composizione. Non si vive di solo lavoro, come non si vive senza qualcosa che impegni seriamente le nostre facoltà. Inoltre, dalla consapevolezza che la vita è un dono, deriva che non si deve aver paura a donarla: essere aperti al bisogno dell’altro è uno degli aspetti più nobili del dono. E anche aiutare gli altri a capire e a vivere bene la loro vita è uno dei doni più grandi che possiamo fare.
La vita, abbiamo detto, è un essere nella contingenza: la certezza della sua fine, la morte, ne illumina il senso e aiuta a capire meglio il suo significato: il sapiente non si nasconde la morte, né se ne fa un’ossessione: la illumina in una luce di sacralità e di mistero, che coinvolge nella sacralità e nel mistero la vita stessa. Il fatto che la vita trovi compimento nella morte, che è l’apertura di un orizzonte di mistero e di sacro, la rende essa stessa mistero e sacro. E come tale meritevole di rispettosa contemplazione: la vita umana non è mai banale: ogni sua manifestazione merita rispetto, e merita di non essere disprezzata o sprecata.
La vita, quindi, come cominciamento del discorso etico: un discorso che dovrà portare a definire un concetto di vita buona, come presupposto della vita felice. Vita buona intesa come vita virtuosa: la virtù, sul cui diritto di cittadinanza nel discorso etico spesso si discute, è l’attitudine a compiere buone azioni, che si acquista proprio con l’esercizio del bene. Secondo alcuni filosofi, la chiave della vita buona sta proprio qui, nelle virtù.

Se in un’ottica classica (e corretta) si può parlare di politica come branca dell’etica, oggi da parte di alcuni sembra quasi rovesciarsi la prospettiva: l’etica come sottocapitolo della politica: dovremmo ripensare a Rosmini: filosofia; filosofia della politica; filosofia politica. E questo rovesciamento non dipenderà dalla identificazione della città di Dio con la città terrestre operata da certe teologie (della liberazione, della speranza), che vedono nella città celeste semplicemente l’esito della città terrestre una volta purificata e resa perfetta, per cui lo scopo dell’uomo è quello di operare questa purificazione? quindi bisogna lavorare a questa purificazione, ed in modo diretto: perché oggi sembra imperare il presupposto del “perfettismo politico”, secondo cui l’uomo sarà migliorato attraverso il miglioramento delle strutture sociali, e non viceversa. Invece, lavorando al miglioramento dell’uomo, si migliorerà la società, nella consapevolezza che la perfezione non è raggiungibile in questo mondo, ma si pone solo come modello a cui ispirarsi.